L’IMPERATORE GIUSTINIANO E LA SEMPLIFICAZIONE NORMATIVA – “D’ENTRO LE LEGGI TRASSI IL TROPPO E ‘L VANO”

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DANTE E PILLOLE DI DIRITTO ATTUALE

“L’opera e il pensiero di Dante poggiano chiaramente su una impalcatura di matrice legale. La centralità del diritto si avverte soprattutto nella Commedia: Dante immagina l’aldilà come una struttura amministrativa fortemente regolata, dotata di una complessa rete di leggi locali, giurididizioni gerarchiche, punizioni e ricompense ben calcolate” (Justin Steinberg, Dante e i confini del diritto).
Qui però si vuole solo un’occasione, nell’anniversario dei 700 anni dalla mortre del Poeta, per (ri)leggere qualche passo del capolavoro, anch’esso bene comune, italiano e dell’umanità.
E, solo secondariamente, aggiungere qualche spunto di riflessione: giusto affinchè, per il piacere della lettura di tale opera, non si resti troppo distaccati dalla realtà.

L’IMPERATORE GIUSTINIANO E LA SEMPLIFICAZIONE NORMATIVA – “D’ENTRO LE LEGGI TRASSI IL TROPPO E ‘L VANO”

Ignoto, particolare del mosaico raffigurante Giustiniano e la sua corte, Ravenna, Basilica di San Vitale

Paradiso, Canto VI, 10-12

Cesare fui e son Iustiniano,
che, per voler del primo amor ch’i’ sento,
d’entro le leggi trassi il troppo e ‘l vano.

Dove ci troviamo

All’interno dell’opera, ossia la Comedìa, comunemente più conosciuta come Divina Commedia, ci troviamo nella Cantica del Paradiso, al Canto VI: canto di argomento politico, così come, con simmetria non casuale, il VI dell’Inferno (ove Dante aveva incontrato, tra i peccatori di gola, Ciacco) e il VI del Purgatorio (ove il Poeta aveva incontrato, tra i morti per violenza, Sordello).
Quest’ultimo si ricorda soprattutto per l’invettiva all’Italia, definita serva (Ahi serva Italia, di dolore ostello, nave sanza nocchiere in gran tempesta, non donna di province, ma bordello!) ossia, in parafrasi, “povera Italia” o “povera Patria” (espressioni e concetti sempre di attualità, anche nelle canzoni dei giorni nostri, seppur ovviamente nella diversità delle analisi e delle prospettive).
Nella visione del Poeta, invero, la soluzione per governare l’Italia, divenuta una belva per l’incapacità e i vizi dei politici locali, era soltanto l’Impero, all’epoca in mani germaniche: Alberto I d’Asburgo (O Alberto tedesco ch’abbandoni costei ch’è fatta indomita e selvaggia, e dovresti inforcar li suoi arcioni etc etc), è ripetutamente supplicato di tornare nel bel paese (Vieni … Vien … Vieni … Vieni … ), insediandosi nuovamente nella città eterna, struggentemente addolorata per la sua mancanza (Roma che piagne vedova e sola, e dì e notte chiama: Cesare mio, perché non m’accompagne?).
Già in quella invettiva si accennava a Giustiniano, con la domanda, retorica, sulla utilità delle leggi senza una Autorità che le faccia rispettare, e l’amara constatazione che c’è ancora più da vergognarsi avendole e lasciandole però violare (Che val perché ti racconciasse il freno Iustiniano, se la sella è vota? Sanz’esso fora la vergogna meno.)
Si suole osservare un crescendo … politico, tra il Canto VI dell’Inferno, dedicato a Firenze, il Canto VI del Purgatorio, dedicato all’Italia, e il Canto VI del Paradiso, dedicato all’Impero.
Gira e rigira, però, Dante fa sempre riferimento alle cronache fiorentine di quegli anni: anche a Giustiniano, dopo una lunga digressione sulla storia dell’Impero, da Enea a lui, alla fine fa dire, male, sia dei Guelfi che dei Ghibellini (entrambi agiscono contr’al sacrosanto segno, nel senso dell’Impero simboleggiato dall’aquila: i primi definiti chi ‘l s’appropria e i secondi chi a lui s’oppone, ma entrambi son cagion di tutti mali).
Stilisticamente, il Canto VI del Paradiso ha una singolarità essendo l’unico, di tutti cento, con un protagonista assoluto, e senza che il Poeta prenda parola: è costituito per intero dal discorso di un solo personaggio, per l’appunto l’Imperatore Giustiniano, a cui dunque è riservato uno spazio ed un risalto particolari.

All’interno del Paradiso, ci troviamo nel II Cielo, quello di Mercurio, ove Dante, accompagnato da Beatrice, è salito dal I Cielo, quello della Luna, velocissimo come una freccia che colpisce il bersaglio prima che la corda dell’arco smetta di vibrare (sì come saetta che nel segno percuote pria che sia la corda queta, così corremmo nel secondo regno).

  • il I Cielo, della Luna, governato dagli Angeli, corrisponde al livello più basso di beatitudine: vi si trovano spiriti che, forse proprio per l’influsso dell’astro, tradizionalmente non positivo, furono incostanti e non mantennero pienamente i voti pronunciati: le figure sono così evanescenti da apparire dei riflessi;
  • il II Cielo, di Mercurio, governato dagli Arcangeli, corrisponde ad un livello superiore di beatitudine: vi si trovano spiriti che ben operarono per la gloria terrena, più luminosi seppure rerefatti.

Lo spirito di Giustiniano compare già alla fine del canto precedente (il Canto V) quando Dante intravede, nella luminosità, singole luci che sono anime di beati che gli vengono incontro e una gli parla, diventando ancora più luminosa, e lo invita a rivolgergli pure domande; allora il Poeta gli chiede chi è, e termina lasciando la suspense sulla sua identità (mi rispuose nel modo che ‘l seguente canto canta).

Lo spirito di Giustiniano si congeda poi all’inizio del canto successivo (il Canto VII) quando Dante gli fa intonare, quale saluto, una strofa rieccheggiante nell’incipit il Sanctus della messa, mente nel prosieguo è probabilmente invenzione del Poeta, con terminologia tratta dalle scritture sacre (Osanna, sanctus Deus sabaòth, superillustrans claritate tua felices ignes horum malacòth!, parafrasabile con Osanna, o santo Dio degli eserciti <sabaòth>, che illumini dall’alto con la tua luce i beati fuochi di questi regni <malachòt>!).

Nel Canto V, come detto, l’anima beata, dopo una premessa sulla storia dell’Impero, si presenta per nome ed espone i suoi principali meriti, nel ben operare per la gloria terrena.

Cesare fui e son Iustiniano,
che, per voler del primo amor ch’i’ sento,
d’entro le leggi trassi il troppo e ‘l vano.
E prima ch’io a l’ovra fossi attento,
una natura in Cristo esser, non piùe,
credea, e di tal fede era contento;
ma ‘l benedetto Agapito, che fue
sommo pastore, a la fede sincera
mi dirizzò con le parole sue.
Io li credetti; e ciò che ‘n sua fede
era, vegg’io or chiaro sì, come tu vedi
ogni contradizione e falsa e vera.
Tosto che con la Chiesa mossi i piedi,
a Dio per grazia piacque di spirarmi
l’alto lavoro, e tutto ‘n lui mi diedi;
e al mio Belisar commendai l’armi,
cui la destra del ciel fu sì congiunta,
che segno fu ch’i’ dovessi posarmi.
Fui Cesare (=imperatore) e sono Giustiniano. E, per volere del primo amore (=lo Spirito Santo) che io sento, tolsi dalle leggi il troppo ed il vano. 
Prima che all’opera [legislativa] fossi intento, credevo che in Cristo ci fosse un’unica natura, non di più, e di questa fede ero contento. Ma il benedetto Agàpito, che fu sommo pastore (=papa), con le sue parole mi raddrizzò verso  la vera fede. 
Io gli credetti. E, ciò che era nella sua fede, io vedo ora così chiaro, come si vede che ogni contraddizione ha un termine falso e l’altro vero. Non appena mossi i piedi con la Chiesa [nella  vera fede], a Dio per grazia piacque d’ispirarmi il grande lavoro, e mi dedicai tutto ad esso. Affidai
 le armi (=il comando dell’esercito) a Belisario, al  quale il favore del cielo fu così congiunto, che fu segno che io dovessi distogliermi [da quel compito].

Chi era Giustiniano

Flavio Pietro Sabbazio Giustiniano è stato imperatore bizantino (Augusto dell’Impero Romano d’Oriente), col nome di Giustiniano I il Grande, dal 527 alla 565 d.C..

Nato in Macedonia, da famiglia di lingua e cultura latine, Giustiniano era figlio di Viglianza, sorella di Giustino, generale dell’esercito imperiale bizantino che, dopo una brillante carriera miliare, in tarda età divenne Imperatore.

Giustino aveva adottato il nipote, portandolo con sè a Costantinopoli e facendogli compiere – a differenza di lui che era analfabeta – non comuni studi di filosofia e di giurisprudenza: Giustiniano ne seguì quindi le orme, prima nell’esercito e poi succedendogli.

Giustiniano governò lungamente assieme a Teodora, donna di grandissima bellezza ed intelligenza che aveva voluto fortemente sposare, nonostante avesse in giovinezza esercitato attività non consone (definita dagli storici antichi “attrice” e “prostituta”; di certo la sua famiglia lavorava all’Ippodromo di Costantinopoli e lei era danzatrice in rappresentazioni teatrali oscene), avesse già avuto un marito ed anche un figlio da padre ignoto (a causa proprio di tali mestieri).

Giustiniano si distinse per aver quasi ripristinato, seppur per poco tempo, l’unicità dell’Impero (da Imperatore d’Oriente, attraverso fortunate campagne militari, specie quelle condotte in Africa e in Italia dal generale Belisario, riuscì a impadronirsi di gran parte dei territori che erano stati persi dall’Imperatore d’Occidente a causa delle invasioni barbariche).

Lasciò però il segno, nella storia, perchè promosse la redazione del Corpus Iuris Civilis: un’opera monumentale di raccolta, ma anche di riorganizzazione analitica e sistematica, di materiale normativo e giurisprudenziale costituente il diritto romano, redatta da pochi valentissimi giuristi (la Commissione originaria, istituita con la costituzione Haec quae necessario del 13.2.528, quando Giustiniano era asceso al trono imperiale da meno di un anno, era formata da 10 membri: un Giovanni di Cappadocia quale Presidente, Triboniano, Teofilo, 2 avvocati e 5 funzionari), in tempi relativamente brevi (il primo lavoro, ossia il Codex, fu pubblicato in appena un anno, con la costituzione Summa rei publicae del 7.4.529).

Il Corpus Iuris Civilis è stato, sino alla codificazione napoleonica, e quindi per oltre un millennio, la base del diritto comune europeo: dal diritto romano non si sarebbe giunti al Code Napoleon e, da noi in Italia, ai “Quattro Codici” tuttora fondamentali (Codice Civile, Codice Penale, Codice Procedura Civile, Codice Procedura Penale) senza Giustiniano.

Il Corpus Iuris Civilis è così composto: Institutiones (opera didattica, destinata agli studenti delle prime classi, in 4 libri – personae, res, obligationes e actiones -, derivata da testi in particolare di Gaio); Digesta o Pandectae (opera antologica, destinata ai pratici, nonchè agli studenti delle classi superiori, in 50 libri, ciascuno diviso in titoli, ciascuno con una propria rubrica, in cui figurano ordinati innumerevoli frammenti degli autori classici, annotando nome del giurista e titolo dell’opera); Codex (raccolta delle leggi emate dagli imperatori, da Adriano sino a Giustiniano stesso, con indicazione dell’autore, dei destinatari, delle date e dei luoghi, divise per argomento, in 12 libri, spaziando dal diritto canonico ed ecclesiastico al diritto privato, al diritto penale e al diritto amministrativo); e Novellae Constitutiones (leggi emanate sempre da Giustiniano, successivamente al Codex).

Una raccolta ma anche, come detto, una riorganizzazione, togliendo “il troppo e il vano”.

Lo prevedeva, programmaticamente, la costituzione Haec quae necessario in merito al Codex: occorrendo una ricognizione ed un riordinamento delle leggi per porre fine alle lungaggini dei processi, fu dato ai commissari il potere di apportare aggiunte, tagli e modifiche (le cosiddette interpolazioni) per rendere più chiare le norme, espungendo le disposizioni abrogate o anche solo cadute in desuetudine (tanto che, all’esito dei lavori, fu espressamente ordinato che nei processi venissero citate solo le norme contenute nel Codex pubblicato, vietando l’utilizzo di testi diversi da quelli inseriti nel Codex stesso).

Insomma: una semplificazione normativa.

Cose d’altri tempi ?

Calcolare quante leggi siano vigenti in Italia è impossibile: si rischia davvero di dare i numeri.

Un molto attivo Ufficio Studi ne ha stimate 160.000, di cui 71.000 nazionali e 89.000 regionali, mentre in Francia sarebbero 7.000, in Germania 5.500 e nel Regno Unito 3.000; ma sono, sicuramente, di più.

La produzione è copiosa e incessante:
per numero di atti normativi (considerando soltanto il Parlamento nazionale, nei primi tre anni della attuale XVII Legislatura – dati del periodo 23 marzo 2018 / 22 marzo 2021 – sono state approvate 171 leggi, 91 decreti legge, 114 decreti legislativi);
per le dimensioni degli atti normativi (l’attuale pandemia ha reso di comune constatazione il susseguirsi di lunghi e complicati d.p.c.m., d.l., d.lgs. etc etc, ma già nella ordinarietà erano divenute normali, solo per esemplificare, leggi finanziarie con centinaia di articoli ovvero di commi – l’ultima, la 30.12.20 n. 178, ha sforato i mille: l’articolo 1 consta di 1150 commi ! – , introducenti norme in ambiti disparati, ben oltre le disposizioni in tema di finanza pubblica e di politica di bilancio che ne dovrebbero essere l’oggetto precipuo).

Banalmente, già alla fine degli anni novanta l’abbonamento di un avvocato a “Le Leggi” diventava insostenibile: a parte il fatto che la rilegatura costava più della rivista, ogni dodici mesi si riempiva più di mezzo scaffale di una libreria.

Una decina d’anni orsono, in un letteralmente pirotecnico show, un Ministro della Repubblica sostenne di avere bruciato (sic) 375.000 leggi, in quanto inutili.

Certo troppe leggi sono non solo inutili ma anche dannose: comportano difficoltà di conoscenza, a fortiori di interpetazione e di applicazione, soprattutto per la poca chiarezza e talvolta addirittura per delle contraddizioni, con l’incertezza del diritto che ne consegue, e sono pertanto di per sè ingiuste.

Più volte si è cercato di mettere mano alla congerie normativa: oltre a varie Commissioni di studio (che spesso si costituiscono quando non si sa cosa fare, e quasi mai portano a risultati), si arrivò addirittura ad istituire un Ministero: nel 2008 (Governo Berlusconi IV) fu creato il Dipartimento per la semplificazione normativa, con a capo un Ministro della Repubblica.

Quel Ministero durò poco (il successivo Governo Monti non nominò un analogo Ministro e trasferì le funzioni del Dipartimento per la semplificazione normativa al Dipartimento della funzione pubblica).

Esordì male (a febbraio 2009 il Ministro annunciò di aver soppresso 29.000 leggi in quanto inutili; sennonchè, tra le tante, risultarono involontariamente cancellate anche le norme istitutive di alcuni Comuni, tra cui Follonica, Sabaudia, Carbonia e Aprilia, la legge di abolizione della pena di morte e, soprattutto, le norme istitutive della Corte dei Conti: occorse quindi, paradossalmente, un successivo decreto “salva-leggi” per rimediare agli errori del primo decreto “taglia-leggi”).

Qualcosa di buono comunque fece: oltre alla innegabile, consistente, riduzione di cui il falò sopra ricordato resta happening memoriabile, avviò il progetto Normattiva, ossia il sito web dello Stato (creato in attuazione … dell’art. 107 della l. 23.12.00 n. 388, la legge finanziaria di quell’anno) che rende disponibile tutta la normativa italiana vigente dal 17 marzo 1861 (data di fondazione del Regno d’Italia) ad oggi, aggiornata in tempo reale e con valenza, di fatto, ufficiale (a rigore è una semplice raccolta che non sostituisce il valore legale derivante dalla pubblicazione sulla Gazzetta ufficiale).

Certo non ha risolto il problema: tanto è vero che quello della semplificazione normativa (quella amministrativa, inerente alla burocrazia, è invero l’altra faccia della stessa moneta, e il settore fiscale è forse quello in cui il caos normativo è più pernicioso, per lo Stato e per i cittadini) resta obiettivo di tutti i Governi, anche degli ultimi, con le relative Agende (compreso l’imminente Recovery Plan).

Piccola riflessione finale

Dante ricollega la codificazione di Giustiniano ad un volere divino (gli fa dire che vi si dedicò per voler del primo amor ch’i’ sento, ossia lo Spirito Santo; ed invero l’imperatore, nei suoi editti, si era definito uomo “iuris religiosissimus”, traducibile come religiosissimo del diritto).

Verrebbe da dire, vista l’attuale situazione delle leggi nella nostra Italia, povera Patria, che servirebbe proprio un altro miracolo.

Restando però con i piedi per terra, preoccuparsi solo di eliminare le leggi c.d. inutili rischia di essere come svuotare il mare con un secchio se continua tale la proliferazione.

Un argine va messo alla sorgente: come per gli atti processuali s’impone il principio della sinteticità, un modus in rebus va prescritto anche a chi le norme materialmente le scrive.

* * *

Il testo completo del Canto VI del Paradiso:

«Poscia che Costantin l'aquila volse
 contr' al corso del ciel, ch'ella seguio
 dietro a l'antico che Lavina tolse,
 cento e cent' anni e più l'uccel di Dio
 ne lo stremo d'Europa si ritenne,
 vicino a' monti de' quai prima uscìo;
 e sotto l'ombra de le sacre penne
 governò 'l mondo lì di mano in mano,
 e, sì cangiando, in su la mia pervenne.
 Cesare fui e son Iustinïano,
 che, per voler del primo amor ch'i' sento,
 d'entro le leggi trassi il troppo e 'l vano.
 E prima ch'io a l'ovra fossi attento,
 una natura in Cristo esser, non piùe,
 credea, e di tal fede era contento;
 ma 'l benedetto Agapito, che fue
 sommo pastore, a la fede sincera
 mi dirizzò con le parole sue.
 Io li credetti; e ciò che 'n sua fede era,
 vegg' io or chiaro sì, come tu vedi
 ogni contradizione e falsa e vera.
 Tosto che con la Chiesa mossi i piedi,
 a Dio per grazia piacque di spirarmi
 l'alto lavoro, e tutto 'n lui mi diedi;
 e al mio Belisar commendai l'armi,
cui la destra del ciel fu sì congiunta,
 che segno fu ch'i' dovessi posarmi.
 Or qui a la question prima s'appunta
 la mia risposta; ma sua condizione
 mi stringe a seguitare alcuna giunta,
 perché tu veggi con quanta ragione
 si move contr' al sacrosanto segno
 e chi 'l s'appropria e chi a lui s'oppone.
 Vedi quanta virtù l'ha fatto degno
 di reverenza; e cominciò da l'ora
 che Pallante morì per darli regno.
 Tu sai ch'el fece in Alba sua dimora
 per trecento anni e oltre, infino al fine
 che i tre a' tre pugnar per lui ancora.
 E sai ch'el fé dal mal de le Sabine
 al dolor di Lucrezia in sette regi,
 vincendo intorno le genti vicine.
 Sai quel ch'el fé portato da li egregi
 Romani incontro a Brenno, incontro a Pirro,
 incontro a li altri principi e collegi;
 onde Torquato e Quinzio, che dal cirro
 negletto fu nomato, i Deci e ' Fabi
 ebber la fama che volontier mirro.
 Esso atterrò l'orgoglio de li Aràbi
 che di retro ad Anibale passaro
 l'alpestre rocce, Po, di che tu labi.
 Sott' esso giovanetti trïunfaro
 Scipïone e Pompeo; e a quel colle
 sotto 'l qual tu nascesti parve amaro.
 Poi, presso al tempo che tutto 'l ciel volle
 redur lo mondo a suo modo sereno,
 Cesare per voler di Roma il tolle.
.E quel che fé da Varo infino a Reno,
 Isara vide ed Era e vide Senna
 e ogne valle onde Rodano è pieno.
 Quel che fé poi ch'elli uscì di Ravenna
 e saltò Rubicon, fu di tal volo,
 che nol seguiteria lingua né penna.
 Inver' la Spagna rivolse lo stuolo,
 poi ver' Durazzo, e Farsalia percosse
 sì ch'al Nil caldo si sentì del duolo.
 Antandro e Simeonta, onde si mosse,
 rivide e là dov' Ettore si cuba;
 e mal per Tolomeo poscia si scosse.
 Da indi scese folgorando a Iuba;
 onde si volse nel vostro occidente,
 ove sentia la pompeana tuba.
 Di quel che fé col baiulo seguente,
 Bruto con Cassio ne l'inferno latra,
 e Modena e Perugia fu dolente.
 Piangene ancor la trista Cleopatra,
 che, fuggendoli innanzi, dal colubro
 la morte prese subitana e atra.
 Con costui corse infino al lito rubro;
 con costui puose il mondo in tanta pace,
 che fu serrato a Giano il suo delubro.
 Ma ciò che 'l segno che parlar mi face
 fatto avea prima e poi era fatturo
 per lo regno mortal ch'a lui soggiace,
 diventa in apparenza poco e scuro,
 se in mano al terzo Cesare si mira
 con occhio chiaro e con affetto puro;
 ché la viva giustizia che mi spira,
 li concedette, in mano a quel ch'i' dico,
 gloria di far vendetta a la sua ira.
Or qui t'ammira in ciò ch'io ti replìco:
 poscia con Tito a far vendetta corse
 de la vendetta del peccato antico.
 E quando il dente longobardo morse
 la Santa Chiesa, sotto le sue ali
 Carlo Magno, vincendo, la soccorse.
 Omai puoi giudicar di quei cotali
 ch'io accusai di sopra e di lor falli,
 che son cagion di tutti vostri mali.
 L'uno al pubblico segno i gigli gialli
 oppone, e l'altro appropria quello a parte,
 sì ch'è forte a veder chi più si falli.
 Faccian li Ghibellin, faccian lor arte
 sott' altro segno, ché mal segue quello
 sempre chi la giustizia e lui diparte;
 e non l'abbatta esto Carlo novello
 coi Guelfi suoi, ma tema de li artigli
 ch'a più alto leon trasser lo vello.
 Molte fïate già pianser li figli
 per la colpa del padre, e non si creda
 che Dio trasmuti l'armi per suoi gigli!
 Questa picciola stella si correda
 d'i buoni spirti che son stati attivi
 perché onore e fama li succeda:
 e quando li disiri poggian quivi,
 sì disvïando, pur convien che i raggi
 del vero amore in sù poggin men vivi.
 Ma nel commensurar d'i nostri gaggi
 col merto è parte di nostra letizia,
 perché non li vedem minor né maggi.
 Quindi addolcisce la viva giustizia
 in noi l'affetto sì, che non si puote
torcer già mai ad alcuna nequizia.
 Diverse voci fanno dolci note;
 così diversi scanni in nostra vita
 rendon dolce armonia tra queste rote.
 E dentro a la presente margarita
 luce la luce di Romeo, di cui
 fu l'ovra grande e bella mal gradita.
 Ma i Provenzai che fecer contra lui
 non hanno riso; e però mal cammina
 qual si fa danno del ben fare altrui.
 Quattro figlie ebbe, e ciascuna reina,
 Ramondo Beringhiere, e ciò li fece
 Romeo, persona umìle e peregrina.
 E poi il mosser le parole biece
 a dimandar ragione a questo giusto,
 che li assegnò sette e cinque per diece,
 indi partissi povero e vetusto;
 e se 'l mondo sapesse il cor ch'elli ebbe
 mendicando sua vita a frusto a frusto,
 assai lo loda, e più lo loderebbe».

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