CONDOMINIO – Gli interventi del condòmino sulle parti comuni

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Giurisprudenza consolidata da anni, ma …

Le norme da considerare, nel Codice Civile, si contano sulle dita di una mano (art. 1102, art. 1120 e art. 1122), e la riforma di cui alla L. 220/12 per quanto qui ci interessa le ha solo sfiorate; la Giurisprudenza, d’altra parte, ormai da decenni appare consolidata in una interpretazione univoca, ripetuta quasi meccanicamente.

Eppure non mancano dubbi, nelle svariate situazioni che quotidianamente si presentano.

Esaminiamo la problematica anzitutto in generale, approfondendo specialmente il limite del rispetto del pari uso ed accennando ai casi più frequenti (la realizzazione di porte, finestre, vetrine, etc etc; l’installazione di canne fumarie, serbatoi, condutture, scarichi, motori di condizionatori, etc etc; il taglio del tetto per realizzare un terrazzo); esamineremo poi l’ipotesi, specifica, degli interventi eseguiti sempre su parti comuni però nell’ambito di unità esclusive o parti destinate all’uso individuale.

Faremo infine una precisazione per chiarire un possibile equivoco, su Assemblea e maggioranze.

In generale

In generale, il tema è quello dell’uso particolare della cosa comune.

Si applica anzitutto l’art. 1102 c.c.1, il quale stabilisce che “Ciascun partecipante può servirsi della cosa comune, purché non ne alteri la destinazione e non impedisca agli altri partecipanti di farne parimenti uso secondo il loro diritto” e che “A tal fine può apportare a proprie spese le modificazioni necessarie per il miglior godimento della cosa”.

Si applica altresì l’art. 1120 u.c. c.c.2, il quale stabilisce che “Sono vietate le innovazioni che possano recare pregiudizio alla stabilità o alla sicurezza del fabbricato, che ne alterino il decoro architettonico o che rendano talune parti comuni dell’edificio inservibili all’uso o al godimento anche di un solo condomino”.

Inoltre deve sempre trattarsi di modifiche finalizzate al miglior godimento delle cose comuni, nell’ambito condominiale: quindi non possono derivarne servitù a favore di proprietà estranee ad esso3.

Quindi è facoltà del singolo condòmino apportare a proprie spese alle cose comuni modificazioni necessarie per il miglior godimento di esse.

Tuttavia questa facoltà ha delle limitazioni:

la modifica non deve impedire agli altri partecipanti di fare parimenti uso secondo il loro diritto delle cose comuni su cui essa si effettua;

– la modifica non deve alterare la destinazione delle cose comuni;

– la modifica non deve recare pregiudizio alla stabilità o alla sicurezza del fabbricato;

– la modifica non deve alterare il decoro architettonico del fabbricato;

– la modifica non deve rendere talune parti comuni dell’edificio inservibili all’uso o al godimento anche di un solo condòmino;

– la modifica non deve creare servitù a favore di proprietà esclusive estranee al condominio.

Merita analizzare soprattutto la prima di queste condizioni, ossia il limite del rispetto dell’altrui pari uso; rimandiamo a successivi approfondimenti le altre.

Al riguardo, la giurisprudenza di legittimità, ossia la Corte di Cassazione, da tempo ha adottato una posizione che si può definire oramai consolidata, non risultando pronunce in contrasto rispetto al principio di diritto, ripetuto pedissequamente in innumerevoli casi (tanto che lo si trova citato, nei pareri legali, e negli atti giudiziari, quasi fosse una norma); questo principio così recita4:

La nozione di pari uso della cosa comune che ogni compartecipe nell’utilizzare la cosa medesima deve consentire agli altri, a norma dell’art. 1102 c.c., non va intesa nel senso di uso identico, perché l’identità nello spazio o addirittura nel tempo potrebbe importare il divieto per ogni condomino di fare della cosa comune un uso particolare e a proprio esclusivo vantaggio;

ne deriva che per stabilire se l’uso più intenso da parte di un condomino venga ad alterare il rapporto di equilibrio fra i partecipanti al condominio – e perciò da ritenersi non consentito a norma dell’art. 1102 – non deve aversi riguardo all’uso fatto in concreto di detta cosa da altri condomini in un determinato momento, ma di quello potenziale in relazione ai diritti di ciascuno.

Sono assunti di cui, a una lettura affrettata, può non cogliersi il senso completo.

La prima parte della massima esclude una interpretazione (letterale) errata del limite del pari uso, che renderebbe la norma ingiustificatamente penalizzante per il singolo condòmino: la condizione di non impedire il pari uso non vuol dire che è vietato l’uso particolare di un singolo condòmino del bene comune quando tutti gli altri condòmini non fanno un uso identico per circostanze di tempo e di spazio del bene stesso, e soltanto per questo fatto; così ragionando (si tratterebbe di una sorta di “o tutti o nessuno”), sarebbe sempre impedito al singolo di fare della cosa comune un uso più intenso degli altri, particolare e a proprio esclusivo vantaggio, mentre ciò è ammissibile (in quanto rientra nel diritto di proprietà, come interpretato anche alla luce dei principi costituzionali).

La seconda parte della massima detta l’interpretazione (logica) corretta del limite del pari uso, perchè tale limite, sia chiaro, sussiste (non si tratta assolutamente di un “liberi tutti”): l’uso particolare del singolo condòmino del bene comune va confrontato con gli usi possibili del bene stesso da parte di tutti gli altri condòmini, secondo prevedibilità e ragionevolezza, in relazione al diritto di ciascuno, per verificare se l’uso particolare del singolo è indifferente in merito agli usi possibili degli altri, ovvero determini per loro impedimento o pregiudizio, alterando l’equilibrio.

Pari uso dunque può ben essere, oltre che uso identico nelle stesse circostanze di tempo e di spazio, anche uso uguale ma in diverse circostanze di tempo e di spazio, ovvero analogo: di conseguenza, la condizione di non impedire il pari uso vuol dire che è precluso l’uso particolare di un singolo condòmino quando agli altri condòmini detto uso particolare precluda di fare altrettanto, secondo il rispettivo diritto, il che squilibrerebbe i rapporti fra i partecipanti al condominio.

Questa, precisamente, è la esplicazione del principio surriportato che si trova nella stessa pronuncia citata5:

Per applicare la regola stabilita dall’art. 1102 cod. civ., il giudice deve accertare – in base all’esame della destinazione attuale della cosa comune, nonché delle ragionevoli prospettive offerte dalla sua oggettiva struttura e destinazione rispetto alle proprietà individuali e tenendo conto delle aspettative, desumibili dall’uso che ciascun condomino faccia della cosa stessa e della sua proprietà, o dei probabili mutamenti – se siano prevedibili modificazioni della cosa comune uguali o analoghe da parte degli altri condomini e se queste sarebbero pregiudicate dalle modifiche attuate o in via di attuazione; in altre parole, il giudice deve accertare che la realizzazione delle opere da parte di un condomino non impedisca agli altri il compimento di altre opere, già previste o prevedibili in relazione alla destinazione attuale della cosa ed alle prospettive offerte dalla sua struttura e funzione, le quali permettano agli altri partecipanti lo stesso o altro migliore uso di tale cosa, a vantaggio delle proprietà esclusive.

Si tratta indubbiamente di una interpretazione della norma di portata più estensiva che restrittiva, di intento più per consentire che per vietare, ma, appunto, affatto permissiva e tollerante di prevaricazioni ed abusi: le parole chiave delle varie pronunce, alla base delle applicazioni ai casi specifici, sono sempre l’equilibrio e il non alterarlo, e comunque il non precludere, il non pregiudicare, valendo un tanto come per il singolo così per gli altri.

Potremmo dire, in estrema sintesi, che il rispetto del limite del pari uso consiste nel fatto che l’uso del bene comune, e specialmente la sua modifica, da parte del singolo non impedisca agli altri futuri usi e modificazioni, uguali o analoghi ad esso, per quanto prevedibile, e tenendo conto dei loro diritti (al riguardo, a ben considerare, possono avere rilievo sia la natura e la collocazione della proprietà esclusiva di ciascuno, sia la rispettiva caratura millesimale).

Qualche esempio può aiutare a comprendere meglio.

Sono stati spesso ammessi, non ravvisando esorbitazione dal pari uso, il realizzare una veduta sul cortile comune, aprendo in corrispondenza della propria unità una nuova finestra6, il realizzare un ingresso dall’androne comune, aprendo in corrispondenza della propria unità una nuova porta7, il realizzare una vetrina in corrispondenza della propria unità commerciale8.

Di solito, infatti, interventi del genere, essendo realizzati in corrispondenza dell’unità esclusiva di un singolo, non pregiudicano effettivamente alcunchè agli altri: gli altri non potrebbero fare loro quell’intervento (si pensi all’uso particolare della muratura, per aprirvi una ulteriore porta o finestra: ovvio che nessun altro potrebbe aprire una porta o una finestra in quelle porzioni), e non dipende da quell’intervento, per gli altri, il poter fare altrettanto (se in corrispondenza delle loro unità vi sono porzioni che analogamente si prestano) o meno (se non vi sono).

Se tuttavia tali interventi del singolo un nocumento agli altri lo creano, allora alterano l’equilibrio, e pertanto non sono consentiti (v. ad es. Cass. 26703/2020 che ha confermato la sentenza di merito in cui l’apertura di un portone in corrispondenza di un garage di proprietà esclusiva per metterlo in comunicazione con cortile e via è stata ritenuta pregiudizievole per la generalità dei condòmini, in considerazione del fatto che, per lasciare l’accesso libero, veniva ad essere limitato l’uso a parcheggio del cortile).

Sono stati spesso ammessi, non ravvisando esorbitazione dal pari uso, sempre per fare degli esempi, l’applicare sulla facciata una canna fumaria9, l’interrare nello scoperto un serbatoio10, l’inserire nelle murature o nel suolo condutture o scarichi11, l’ancorare sulla facciata il motore del condizionatore12 etc etc, ma sempre sul presupposto che non impediscano agli altri, in futuro, interventi identici o analoghi.

Diversamente, allora la modifica altera l’equilibrio, e pertanto non è consentita (v. ad es. Cass. 17400/2017 che ha confermato la sentenza di merito in cui l’installazione di una apparecchiatura dell’impianto di condizionamento in un ballatoio comune è stata ritenuta pregiudizievole per gli altri condòmini, in considerazione del fatto che occupava più di metà dello spazio).

Ancora, è stata ammessa, non ravvisando esorbitazione dal pari uso, la realizzazione di una terrazza tagliando una porzione di tetto in corrispondenza della propria unità sottostante, ma perchè la porzione era molto limitata e non erano ravvisabili conseguenze pregiudizievoli13; diversamente, la modifica non è consentita (v. ad es. Cass. 4256/2018 che ha confermato la sentenza di merito in cui il taglio del tetto per creare la terrazza era stato ritenuto illegittimo, soprattutto per le dimensioni).

Ipotesi specifica: opere eseguite su parti comuni, ma entro unità esclusive o parti destinate all’uso individuale

Quanto sopra vale per la generalità delle modifiche finalizzate al miglior godimento delle cose comuni.

Una regola specifica è dettata per gli interventi eseguiti, ad iniziativa del singolo, sempre su parti comuni, però nell’ambito di unità esclusive o parti destinate all’uso individuale.

Si applica, in questi casi, l’art. 1122 c.c., intitolato appunto, Opere su parti di proprietà o uso individuale, il quale stabilisce che “Nell’unità immobiliare di sua proprietà ovvero nelle parti normalmente destinate all’uso comune, che siano state attribuite in proprietà esclusiva o destinate all’uso individuale, il condomino non può eseguire opere che rechino danno alle parti comuni ovvero determinino un pregiudizio alla stabilità, alla sicurezza o al decoro architettonico dell’edificio”, e che “In ogni caso è data preventiva notizia all’amministratore che ne riferisce all’assemblea”.

Può sembrare che i limiti siano più circoscritti (le modifiche non devono recare danno alle parti comuni e non devono determinare pregiudizio alla stabilità, alla sicurezza o al decoro architettonico dell’edificio), ma la formulazione è comunque ampia e esaustiva (specie per il riferimento al concetto di “danno”, in sè comprensivo dei possibili pregiudizi più vari).

E’ importante ricordare l’obbligo, in capo al condòmino, prima di iniziare lavori all’interno della sua unità, di notiziare l’Amministratore in modo che questi possa riferirne all’Assemblea.

Il condòmino non può trincerarsi sostenendo che all’interno della sua proprietà esclusiva può fare quello che vuole: e l’Amministratore, se viene a conoscenza di lavori in corso, ha il diritto, e anche il dovere, di assumere informazioni.

Il possibile equivoco dell’autorizzazione dell’Assemblea e delle maggioranze richieste

Molto spesso il Regolamento condominiale prevede espressamente, qualora il singolo condòmino intenda effettuare interventi che incidono sulle parti comuni, l’obbligo di sottoporre la questione all’Assemblea, e parla al riguardo di autorizzazione o comunque di previo consenso; talvolta specifica che occorre l’unanimità, raramente indica una determinata maggioranza.

Mancando previsioni di questo tipo, l’Assemblea è comunque la sede più opportuna per il confronto tra le posizioni dei condòmini anche con riferimento all’uso particolare dei beni condominiali che un singolo voglia farne, specie se implica interventi su parti comuni e quindi modificazioni delle parti stesse.

E gioca un ruolo di cruciale importanza la professionalità dell’Amministratore, per favorire il chiarimento e anche il componimento di ben facilmente immaginabili divergenze tra i diversi punti di vista e convincimenti.

Tuttavia occorre anche aver chiara la consapevolezza che il diritto del singolo condòmino di apportare a proprie spese sulle cose comuni modificazioni necessarie per il miglior godimento da parte sua di dette, di regola, non è nella disponibilità dell’Assemblea e di una maggioranza: o c’è (sussistendo tutte le condizioni di cui sopra; e solo l’Autorità Giudiziaria può accertare un tanto) o non c’è.

Capita che venga chiesto quale maggioranza serve per autorizzare gli interventi del singolo sulle parti comuni (si pensi al caso, frequentissimo, della installazione della canna fumaria da parte del pubblico esercizio): si vedono molte delibere in cui è stato votato in merito, accogliendo o respingendo una richiesta di autorizzazione, e venga allora chiesto se sono impugnabili.

Bisogna anzitutto considerare eventuali previsioni del Regolamento, come si diceva (sempre che a loro volta siano valide ed opponibili); in mancanza di esse, e quindi secondo le regole generali, non sono consigliabile votazioni e delibere in termini di rilascio o meno di una autorizzazione; semmai, potrà darsi atto di manifestazioni di consenso, ovvero di dissenso, da parte dei presenti (si consideri che, per la giurisprudenza, alla eventuale autorizzazione ad apportare la modifica concessa dall’assemblea può attribuirsi il valore di mero riconoscimento dell’inesistenza di interesse e di concrete pretese degli altri condomini14).

Se le condizioni della facoltà di uso particolare della cosa comune sussistono (nell’esempio della canna fumaria: se rispetta il decoro architettonico, il limite del pari uso nel senso sopra precisato, etc etc), e quindi il diritto c’è, nessuna delibera può vietarlo, e vale ovviamente anche l’opposto: se quelle condizioni non sussistono, e quindi il diritto non c’è, nessuna delibera può autorizzarlo (a meno che non sia all’unanimità presenti tutti i condòmini).

1 l’art. 1102 c.c., intitolato Uso della cosa comune, è dettato per la comunione; è però richiamato, per il condominio, dall’art. 1139 c.c., intitolato Rinvio alle norme sulla comunione e stabilente che Per quanto non è espressamente previsto da questo capo si osservano le norme sulla comunione in generale.

2 l’art. 1120 c.c., intitolato Innovazioni, è dettato per le modificazioni dirette al miglioramento o all’uso più comodo o al maggior rendimento delle cose comuni deliberate dall’Assemblea; il suo ultimo comma si applica però anche, per la giurisprudenza, in via analogica, alle modificazioni consentite al singolo condòmino dall’art. 1102 c.c. (cfr. di recente Cass. 25790/2020, che dà atto trattarsi di disposizioni non sovrapponibili, avendo presupposti ed ambiti di operatività diversi, ma ribadisce la identità di “ratio”, e in particolare ribadisce, per le canne fumarie, il limite del rispetto del decoro architettonico; v. in precedenza Cass. 3084/1994, Cass. 12343/2003).

3 cfr., di recente, Cass. 5132/2019

4 traiamo da Cass. 11268/1998, che cita le precedenti Cass. 3368/1995, Cass. 13107/1992, Cass. 1637/83, Cass. 2087/1982; il principio si trova in massime anche anteriori a queste, degli anni settanta

5 sempre da Cass. 11268/1998

6 Cass. 13874/2010

7 Cass. 42/2000; Cass. 8591/1999; Cass. 24295/2014

8 Cass. 1499/1988

9Cass. 6341/2000

10 Cass. 4394/1997

11Cass. 18661/2015

12 Cass. 8857/2015

13 Cass. 14107/2012, Cass.2500/2013

14 Cass. 6608/1982, Cass. 1554/1997