DIRITTO DELL’UNIONE EUROPEA E FONTI DEL DIRITTO ITALIANO – Efficacia “normativa” delle pronunce della Corte di Giustizia della Unione Europea rese in ambito di procedimento pregiudiziale c.d. interpretativo – Cassazione Civile sez. I 9.4.24 n. 9429

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Nelle edizioni che ancora si stampano del Codice Civile resta la tradizione di inserire, oltre che, alla fine, le Disposizioni per l’attuazione del Codice civile e disposizioni transitorie, anche, all’inizio, le c.d. Preleggi o. più correttamente, le Disposizioni sulla legge in generale.

Invero il Codice Civile e le Disposizioni sulla legge in generale furono emanati assieme, dal Regio Decreto 16 marzo 1942 n. 262 (che previde di inserire nel corpus anche la Carta del Lavoro e le Disposizioni sul valore giuridico della Carta del Lavoro, poi soppresse con il venir meno dell’ordinamento corporativo), il quale entrò in vigore il 19 aprile 1942; mentre le Disposizioni per l’attuazione del Codice civile e disposizioni transitorie furono emanate un paio di settimane dopo, con il Regio Decreto 30 marzo 1942, n. 318, il quale entrò in vigore però sempre il 19 aprile 1942, come appunto la codificazione a cui si riferiscono (invero la vigenza era stata ufficialmente preannunciata per il 21 aprile, data appositamente scelta, all’epoca, in quanto celebrativa del Natale di Roma, ossia della sua fondazione, secondo la leggenda, ad iniziativa di Romolo e Remo).

L’importanza delle Disposizioni per l’attuazione del Codice civile e disposizioni transitorie è spesso trascurata (tuttavia su comunione e condominio, solo per fare un esempio, contengono norme, artt. 61-72 e 155-155-bis, che hanno pari livello di quelle del Codice Civile, artt. 1100-1116 e 1117-1139, senza che si colga una ratio del trovarsi lì e non colà); l’importanza delle Disposizioni sulla legge in generale rimane inalterata per alcuni principi (come quelli, sull’applicazione della legge in generale, che ne regolano l’interpretazione e l’efficacia nel tempo), mentre è stata travolta da successivi cambiamenti per quanto concerne le fonti del diritto, tanto da apparire (benchè alcuni articoli restino, formalmente, vigenti) vestigia1 del passato.

L’art. 1 continua a recitare che Sono fonti del diritto: 1) le leggi; 2) i regolamenti 4) gli usi, figurando espressamene abrogato solo il 3) le norme corporative.

Il 19 aprile 1942, quando dunque entrarono in vigore il Codice Civile, le sue disposizioni attuative e transitorie nonchè le preleggi, il Regno d’Italia era già entrato nella seconda guerra mondiale da quasi due anni (la dichiarazione era avvenuta il 10 giugno 1940): poco più di un anno dopo cadde il regime che era al governo da circa un ventennio (il 25 luglio 1943) e si arrivò all’armistizio (l’8 settembre 1943): il 2 giugno 1946 si svolsero contemporaneamente il referendum istituzionale che face nascere la Repubblica Italiana e l’elezione dell’Assemblea Costituente, che in un anno e mezzo riuscì a elaborare la Costituzione della Repubblica Italiana quale legge fondamentale dello Stato italiano, approvata il 22 dicembre 1947 in vigore dal 1° gennaio 1948.

La Costituzione ha determinato uno sconvolgimento della gerarchia delle fonti di cui alle Preleggi non solo quanto a se stessa, per il suo porsi quale normativa per definizione sovraordinata alle comuni leggi, ma anche per le sue previsioni, su un duplice livello: delle autonomie locali (art. 5: La Repubblica, una e indivisibile, riconosce e promuove le autonomie locali; attua nei servizi che dipendono dallo Stato il più ampio decentramento amministrativo; adegua i principi ed i metodi della sua legislazione alle esigenze dell’autonomia e del decentramento), e degli ordinamenti sovranazionali (art. 11: L’Italia ripudia la guerra come strumento di offesa alla libertà degli altri popoli e come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali; consente, in condizioni di parità con gli altri Stati, alle limitazioni di sovranità necessarie ad un ordinamento che assicuri la pace e la giustizia fra le Nazioni; promuove e favorisce le organizzazioni internazionali rivolte a tale scopo).

Con una rilevante differenza.

Lato automie locali, le leggi regionali hanno, al massimo, rango equiparato alle leggi ordinarie (anche all’esito della riforma del titolo V con la legge costituzionale 3/2001, che ha delineato, nel testo attualmente vigente dell’art. 117, una potestà legislativa generale appartenente allo Stato e alle Regioni, posti sullo stesso piano, con competenza però attribuita per materie, distinguendo propriamente una competenza a legiferare esclusiva dello Stato, concorrente tra Stato e Regioni e residuale delle Regioni).

Lato ordinanementi sovranazionali, è oramai pacifico, in particolare, che il diritto dell’Unione Europea ha rango superiore alle leggi ordinarie, e quindi paragonabile a quello della Costituzione; si sogliono citare, come snodi fondamentali sul punto, per il recepimento da parte della nostra giurisdizione dei principi di cui alle storiche sentenze della Corte europea Van Gend en Loos v Nederlandse Administratie der Belastingen del 19632 e Flaminio Costa c. ENEL del 19643, la pronuncia della Corte Costituzionale n. 183 del 1973, che affermò il principio della prevalenza delle norme comunitarie su quelle nazionali4, e le pronunce sempre della Consulta della n. 170 del 1984 e n. 389 del 1989, che affermarono i corollari per cui, nella distinzione e nello stesso tempo del coordinamento tra i due ordinamenti, tale prevalenza comporta da un lato la diretta applicazione, e dall’altro la “non applicazione” delle norme interne contrastanti con l’ordinamento comunitario, rispettivamente da parte da parte del giudice nazionale e degli organi amministrativi; di tale prevalenza, del resto, ne dà atto lo stesso art. 117 come riformato sopra citato, laddove afferma che la la potestà legislativa è esercitata dallo Stato e dalle Regioni nel rispetto della Costituzione, nonché dei vincoli derivanti dall’ordinamento comunitario e dagli obblighi internazionali.

Ma quali sono le fonti diritto dell’Unione Europea ?

Nel sito istituzionale del Parlamento Europeo su fonti e campo di applicazione del diritto dell’Unione vengono distinti il Diritto primario dell’Unione, ossia i trattati (da quelli di Parigi, del 1951, istituenti la CECA, e di Roma, del 1957, istituente la CEE e la CEEEA, a quelli di Mastricht del 1992, istitutivo della Unione, di Amsterdam del 1999, di Nizza del 2001 e di Lisbona del 2007), e il Diritto derivato o secondario dell’Unione, ossia i regolamenti, le direttive, nonchè le decisioni, le raccomandazioni ed i pareri.

Dei regolamenti, si dice che hanno portata generale, sono obbligatori in tutti i loro elementi e direttamente applicabili. Essi devono essere pienamente rispettati dai destinatari (privati, Stati membri, istituzioni dell’Unione). I regolamenti sono direttamente applicabili in tutti gli Stati membri a partire dalla loro entrata in vigore (alla data specificata o, in assenza di indicazione, venti giorni dopo la loro pubblicazione nella Gazzetta ufficiale dell’Unione europea), senza necessità di recepimento nel diritto nazionale. I regolamenti sono volti a garantire l’applicazione uniforme del diritto dell’Unione in tutti gli Stati membri. Ne consegue che le norme nazionali incompatibili con le clausole sostanziali contenute nei regolamenti sono rese inapplicabili dagli stessi.

Delle direttive, si dice che vincolano lo Stato membro o gli Stati membri cui sono rivolte per quanto riguarda il risultato da raggiungere, salva restando la competenza degli organi nazionali in merito alla forma e ai mezzi. Il legislatore nazionale deve adottare un atto di recepimento ossia una “misura nazionale di esecuzione” nel diritto interno che adatta la legislazione nazionale rispetto agli obiettivi definiti nella direttiva. In sostanza, ai singoli cittadini vengono attribuiti diritti e imposti obblighi solo una volta adottato l’atto di recepimento. Gli Stati membri dispongono di un certo margine di manovra per il recepimento che permette loro di tenere conto di specifiche circostanze nazionali. Il recepimento deve avvenire entro il termine stabilito nella direttiva. Nel recepire le direttive gli Stati membri sono tenuti ad assicurare l’efficacia del diritto dell’Unione, in virtù del principio di leale cooperazione di cui all’articolo 4, paragrafo 3 TUE. In linea di principio, le direttive non sono direttamente applicabili. La Corte di giustizia ha statuito che alcune disposizioni di una direttiva possono, in via eccezionale, produrre effetti diretti in uno Stato membro senza che quest’ultimo abbia in precedenza adottato un atto di recepimento se: a) la direttiva non è stata recepita o è stata recepita in modo errato nell’ordinamento nazionale; b) le disposizioni della direttiva sono, da un punto di vista sostanziale, incondizionate e sufficientemente chiare e precise; e c) le disposizioni della direttiva conferiscono diritti ai singoli. Qualora sussistano tali presupposti, i singoli possono invocare le disposizioni della direttiva dinanzi alle autorità pubbliche. Le autorità degli Stati membri hanno l’obbligo di tener conto della direttiva non recepita anche qualora la disposizione in questione non accordi alcun diritto al privato e sussistano solo il primo e il secondo presupposto di cui sopra. Detta giurisprudenza si fonda soprattutto sui principi dell’effetto utile, della prevenzione delle violazioni del trattato e della tutela giurisdizionale. Per contro, il privato non può invocare direttamente nei confronti di un altro privato l’effetto diretto di una direttiva non recepita (il cosiddetto “effetto orizzontale”; Faccini Dori contro Recreb Srl, causa C-91/92, punto 25). Secondo la giurisprudenza della Corte di giustizia (Francovich, cause riunite C-6/90 e C-9/90), il privato è autorizzato a chiedere a uno Stato membro il risarcimento dei danni subiti a causa del mancato rispetto del diritto dell’Unione da parte di quest’ultimo. Se si tratta di una direttiva non recepita o recepita in modo insufficiente, tale ricorso è possibile se: a) la direttiva mira a conferire diritti ai singoli, b) il contenuto dei diritti è desumibile dalla direttiva stessa; e c) esiste un legame di causa ed effetto tra la violazione dell’obbligo di recepimento da parte dello Stato e il danno subito dal privato. In tal caso è possibile stabilire la responsabilità dello Stato membro senza dover dimostrare una colpa a suo carico.

Insomma, i regolamenti sono per loro natura direttamente applicabili; le direttive per loro natura non lo sono, ma possono comunque produrre effetti diretti.

Tra le fonti del Diritto derivato o secondario dell’Unione finiscono per rientrare, peraltro, anche le pronunce della Corte di Giustizia dell’Unione Europea.

La nostra Corte di Cassazione aveva già ritenuto (sentenza n. 5381/2017) che nell’ordinamento interno le pronunce del giudice di Lussemburgo definiscono la portata della norma Eurounitaria così come avrebbe dovuto essere intesa ed applicata fin dal momento della sua entrata in vigore. Per tale motivo, dette pronunce estendono i loro effetti ai rapporti sorti in epoca precedente, purché non esauriti (cfr. Corte Giust. 11 agosto 1995, cause riunite da C-367/93 a C-377/93, Roders e a., punto 42, e 3 ottobre 2002, causa C-347/00, Barreira Perez, punto 44). I superiori principi, pienamente coerenti rispetto al meccanismo del rinvio pregiudiziale – ora disciplinato dall’art. 267 TFUE – ed ai compiti nomofilattici attribuiti alla Corte di Lussemburgo dal Trattato UE, da considerare assolutamente fermi e consolidati nella giurisprudenza della Corte di Lussemburgo (v. ex multis, Corte Giust., 17 febbraio 2005, causa C -453- 02 e C-462/02, Finanzamt Gladbeck, p. 41 ), risultano parimenti radicati nella giurisprudenza della Corte costituzionale e di questa stessa Corte (…). L’interpretazione di una norma di diritto UE fornita dalla Corte di Giustizia delle Comunità Europee si limita a chiarire ed a precisare il significato e la portata della norma stessa, così come essa avrebbe dovuta essere interpretata sin dal momento della sua entrata in vigore, con la conseguenza che la norma interpretata – purché dotata di efficacia diretta (in quanto dalla stessa i soggetti operanti all’interno degli ordinamenti degli Stati membri possono trarre situazioni giuridiche direttamente tutelabili in giudizio) – può e deve essere applicata dal giudice anche a rapporti giuridici sorti e sviluppatisi prima della sentenza interpretativa, salvo che, in via eccezionale e in applicazione del principio generale della certezza del diritto inerente all’ordinamento giuridico comunitario, la stessa Corte – e non anche invece il giudice nazionale – abbia limitato la possibilità per gli interessati di far valere una disposizione da essa interpretata onde rimettere in discussione rapporti giuridici costituiti in buona fede ovvero al fine di evitare gravi inconvenienti (cfr. Cass, n. 5708 del 10/03/2009)”.

Con la pronuncia che si segnala (sentenza n. 9429/2024) torna sull’argomento, approfondendo il tema della vincolatività della pronuncia resa in ambito di procedimento pregiudiziale cd. interpretativo della Corte di Giustizia e quindi, in pratica, della eventuale efficacia “normativa” che quella stessa statuizione (che ha effetti certamente vincolanti per il giudice a quo. Cfr. Corte cost. 24 giugno 2010, n. 227) deve produrre nei confronti di altri casi.

Nei punti della motivazione che qui interessano (4.3.2, 4.3.3 e 4.3.4) la Corte di Cassazione è ben conscia della estrema delicatezza della questione, perché, come osservatosi in dottrina, qui il tema del precedente si intreccia e rischia di confondersi con quello della efficacia soggettiva delle pronunce della Corte. Tanto è vero che si è parlato pure di “autorità della cosa interpretata”.

Ricorda che la posizione della dottrina maggioritaria, con varie sfumature, è nel senso di riconoscere alle decisioni pregiudiziali della Corte capacità estensiva nei confronti di altri procedimenti, in forza di una loro dichiarata efficacia erga omnes o almeno de facto ultra partes, per la necessaria garanzia della uniforme applicazione dell’interpretazione del diritto euro-unitario, assistita dall’obbligo degli Stati membri di adottare ogni misura “atta ad assicurare l’esecuzione degli obblighi derivanti dai trattati o conseguenti agli atti delle istituzioni dell’Unione” (art. 4, TUE). D’altra parte, in alcune circostanze, anche questa Corte si è spinta a parlare di efficacia “vincolante” o “normativa” delle pronunce interpretative del giudice sovranazionale, evidentemente sul presupposto che esso svolga una funzione nomofilattica equiparabile a quella assegnata dall’ordinamento interno alla Cassazione (significativo, in proposito, si rivela il passaggio motivazionale di Cass. n. 20216 del 2022, in cui si afferma che “l’intervento, nel corso del giudizio di legittimità, di una pronuncia della Corte di Giustizia della UE, resa nell’esercizio dei suoi poteri di interpretazione vincolante di una disposizione dell’ordinamento comunitario, non è qualificabile come ius superveniens, rilevando la suddetta pronuncia solo sotto il profilo del riscontro della compatibilità di tale norma interna con le regole comunitarie (ex plurimis Cass. n. 5991/1987). Le sentenze della Corte di Giustizia dell’UE hanno, infatti, efficacia vincolante, diretta e prevalente sull’ordinamento nazionale, così confermato dalla Corte Costituzionale con le sentenze n. 168/1981 e n. 170/1984”).
Ed osserva che questa capacità espansiva dell’interpretazione del giudice europeo, peraltro, va riferita alla sua astratta possibilità di estensione, riguardando il se della applicazione a procedimenti diversi da quelli in cui l’interpretazione è elaborata. Diversamente, la teoria del precedente giudiziale si occupa del quando (nel senso di a quali condizioni) tale interpretazione possa, o addirittura debba, applicarsi ad altri procedimenti, in quanto soggetti a quello che può essere definito il medesimo status normativo. D’altronde, di questo si ragiona allorché ci si occupa del vincolo e dei limiti dell’interpretazione conforme richiesta al giudice comune, inteso come giudice successivo nella logica del cd. precedente verticale. Pertanto è esatto il rilievo dottrinario per cui la “decisione resa in sede di rinvio pregiudiziale non solo è vincolante per il giudice che ha sollevato la questione, ma spiega i propri effetti anche rispetto a qualsiasi altro caso che debba essere deciso in applicazione della medesima disposizione di diritto dell’Unione interpretata dalla Corte”.

Ebbene, dopo aver esaminato molto approfonditamente la concreta fattispecie su cui era intervenuta la decisione della Corte di Giustizia dell’Unione della cui valenza si faceva discussione, la Corte di Cassazione ravvisa in essa (al punto della motivazione 4.11) una interpretazione complessivamente fornita di una certa norma di un Regolamento (nella fattispecie si trattava di privativa comunitaria su ritrovati vegetali) che riveste necessariamente un valore generale, in quanto volta ad individuarne la portata così come avrebbe dovuto essere intesa ed applicata fin dal momento della sua entrata in vigore. In quest’ottica, dunque, la pronuncia in esame assume, in parte qua, un significato suo proprio, non riferibile, cioè alla sola fattispecie concreta ivi affrontata, ma valevole in tutte le fattispecie in cui venga in rilievo la interpretazione della suddetta norma regolamentare.

E ribadisce, al riguardo, che alle decisioni pregiudiziali interpretative della CGUE è riconosciuta una capacità estensiva nei confronti di altri procedimenti, in forza di una loro dichiarata efficacia erga omnes o almeno de facto ultra partes, per la necessaria garanzia della uniforme applicazione dell’interpretazione del diritto euro-unitario, assistita dall’obbligo degli Stati membri di adottare ogni misura “atta ad assicurare l’esecuzione degli obblighi derivanti dai trattati o conseguenti agli atti delle istituzioni dell’Unione” (art. 4, TUE).

Il confine tra la funzione nomofilattica e l’integrazione delle fonti del diritto è sempre più labile, come anche nel nostro ordinamento interno si è recentemente sperimentato (ci riferiamo all’intervento di Cassazione Civile sez. un. 6.4.2023 n. 9479 sulla tutela del consumatore e clausole abusive nel procedimento per ingiunzione e nelle procedure esecutive promosse in forza di decreto ingiuntivo, peraltro sollecitato da pronunciamento sempre della Corte di Giustizia dell’Unione Europea, che abbiamo anche qui esaminato).

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Civile Sent. Sez. 12 Num. 9424 Anno 2024
Presidente: GENOVESE FRANCESCO ANTONIO
Relatore: CAMPESE EDUARDO
Data pubblicazione: 09/04/2024

(omissis)

FATTI DI CAUSA

1. In data 3 febbraio 2015, S* W* – multinazionale americana titolare di un brevetto europeo sulla varietà vegetale denominata “Sugranineteen” che produce uva rossa da tavola senza semi, commercializzata sotto il marchio registrato “Scarlotta seedless” – stipulò con l’impresa individuale M* A* – proprietaria di un appezzamento di terreno di 1,8 ettari sito in agro di Acquaviva delle Fonti (BA) – un contratto denominato “Contratto di Affitto con il Produttore di Uva” (d’ora in poi, “il Contratto Principale”) con il quale le concesse, a fronte del pagamento di un compenso di euro 855,60, la licenza a prendere in affitto e coltivare 3,100 gemme di Sugranineteen sul proprio terreno. Il suddetto contratto prevedeva, all’art. 2, l’obbligo per la M* A* di ottenere le gemme esclusivamente dai vivai autorizzati S* W*. Tuttavia, in pari data, su richiesta della M* A*, le parti stipularono un secondo contratto denominato “Autorizzazione alla propagazione” che, in deroga al citato art. 2 del Contratto Principale, consentiva a quest’ultima di ottenere gemme da un vivaio non autorizzato – l’Azienda Agricola B* – facente comunque parte della rete di distribuzione esclusiva S* W*. Il Contratto Principale prevedeva, altresì, all’art. 4, che i frutti prodotti dalle piante in affitto dovessero essere commercializzati da un distributore autorizzato S* W*. In ottemperanza a tale obbligo, la M* A* designò D* D* T* quale proprio distributore autorizzato, ma l’intero raccolto del 2016, a dire della prima, fu compromesso dalle forti alluvioni che colpirono la Puglia tra il settembre ed il novembre 2016 e dall’indisponibilità del menzionato distributore a vendemmiare in tempo utile.
1.1. Con lettera del 12 dicembre 2016, S* W* intimò alla M* A* di porre rimedio ad alcuni inadempimenti (mancato pagamento del compenso di euro 855,60; mancata notifica, entro il termine contrattualmente previsto, del nominativo del distributore autorizzato prescelto; commercializzazione dell’uva “Sugranineteen” ad un distributore non autorizzato, la S* G*, società di proprietà del marito della M* A* e nella quale ella ricopriva il ruolo di amministratore unico) e, non ricevendo alcuna risposta, comunicò alla controparte la formale risoluzione del Contratto Principale per inadempimento.
1.1.1. La M* A* effettuò comunque il pagamento, in favore di S* W*, del compenso predetto, ma, con nota del 20 gennaio 2017, S* W* le ribadì che il Contratto Principale doveva ormai considerarsi definitivamente risolto e le intimò di procedere allo sradicamento di tutte le piante di “Sugranineteen” entro 10 giorni. Il successivo 13 giugno 2017, inoltre, informò tutti i membri del proprio network distributivo dell’avvenuta esclusione della M* A* dai soggetti autorizzati alla produzione della varietà “Sugranineteen”, con conseguente impossibilità per la stessa di commercializzare l’uva prodotta oggetto del contratto.
1.2. Su tali premesse ed avvalendosi della clausola compromissoria di cui all’art. 9.8 del Contratto Principale, in data 16 novembre 2017, S* W* diede impulso ad un procedimento arbitrale presso la Camera Arbitrale di Milano, chiedendo che venisse accertato il grave inadempimento della M* A* per avere quest’ultima commercializzato l’uva “Sugranineteen” al di fuori della rete di Distributori Autorizzati e che, pertanto, venisse dichiarato definitivamente risolto per inadempimento il contratto stipulato inter partes. Domandò, altresì, la condanna di controparte al pagamento di euro 100.000,00 (o eventualmente di quella diversa stabilita secondo equità) a titolo risarcitorio, nonché di euro 36.000,00 a titolo di penale per l’inadempimento, oltre alla refusione delle spese legali.
1.2.1. Si costituì la M* A*, la quale, nel contestare tutto quanto ex adverso dedotto, eccepì, in via preliminare, il difetto di giurisdizione del collegio arbitrale in favore del tribunale ordinario in ragione della invocata invalidità della clausola compromissoria suddetta in quanto contenuta in un contratto predisposto unilateralmente da controparte e non specificatamente approvata per iscritto ai sensi dell’art. 1341, comma 2, cod. civ. Nel merito, poi, chiese accertarsi la nullità del contratto concluso tra le parti per violazione del principio di esaurimento previsto dal Regolamento (CE) n. 2100/94 trasposto nel Codice della proprietà industriale ed intellettuale, nonché per violazione dell’art. 102 TFUE (divieto di abuso di posizione dominante) e 120 TFUE (libera concorrenza). In via subordinata, infine, domandò l’accertamento dell’insussistenza di qualsivoglia inadempimento contrattuale e, in via riconvenzionale, chiese la condanna di controparte al risarcimento di asseriti danni, anche d’immagine, subiti.
1.3. Con lodo parziale del 20 aprile 2018, il collegio arbitrale ritenne sussistente la propria competenza a decidere la controversia e, con successivo lodo definitivo del gennaio 2019, così dispose: “a) Dichiara che M* A* non ha adempiuto al Contratto vendendo l’uva Scarlotta Seedless a distributori non autorizzati; b) Dichiara che il Contratto deve ritenersi risolto per colpa di M* A* a partire dalla data di emissione del presente lodo; c) ingiunge a M* A* di espiantare tutte le gemme di Sugranineteen presenti sul suo terreno alla presenza di un rappresentante di S* W* entro 20 giorni dalla notifica del presente lodo da parte della CAM; d) ingiunge a M* A* il pagamento di un simbolico euro a titolo di risarcimento danni; e) ingiunge a M* A* di pagare la metà delle spese di legali di S* W* pari ad euro 8.474; f) ingiunge a M* A* di pagare a S* W* metà delle spese sostenute, corrispondenti ad euro 8.135; g) ingiunge a M* A* di corrispondere metà delle spese totali dell’arbitrato, fissate dalla decisione del Consiglio Arbitrale n. 2010/6 del 4 ottobre 2018, in (i) euro 23.000, più IVA e tasse, ove dovute, a titolo di diritti di cancelleria, (ii) euro 3.500, più IVA ove dovuta, come diritto per la CAM, (iii) euro 192 a titolo di rimborso per i diritti relativi alle marche da bollo apposte sulle ordinanze e sui verbali d’udienza, (iv) euro 1.730,00, più IVA ove dovuta a rimborso per i verbali di udienza e le registrazioni, e (v) euro 480 a rimborso per marche da bollo dovute sulle tre copie originali del lodo arbitrale; h) rigetta tutte le altre richieste”.

2. L’impugnazione di entrambi tali lodi promossa dalla M* A* ex artt. 828 e 829 cod. proc. civ. fu decisa dalla Corte di appello di Milano con sentenza del 5 agosto 2022, n. 2704, resa nel contraddittorio con la S* W*, a sua volta impugnante incidentale del lodo definitivo, con cui quella corte così dispose: “Rigetta l’impugnazione del Lodo parziale reso il 20 aprile 2018; dichiara inammissibile e/o infondata l’impugnazione del Lodo definitivo reso il 7 gennaio 2019; dichiara inammissibile e/o infondata, l’impugnazione incidentale proposta da S* W*; compensa per un quarto le spese di lite tra le parti e, per l’effetto, condanna M* A* a rifondere a S* W* i residui tre quarti, liquidati in complessivi euro 7.136,25 oltre rimborso forfettario spese generali nella misura del 15%, Iva e CPA come per legge”.
2.1. Per quanto qui ancora di interesse, ed in estrema sintesi, la corte territoriale: i) disattese la doglianza, proposta contro il lodo non definitivo, relativa alla – documentata e non contestata – omessa approvazione specifica della clausola compromissoria, con conseguente inefficacia ai sensi dell’art. 1341 cod. civ., sulla base di due distinti percorsi argomentativi: il primo, secondo il quale la sussistenza di elementi specifici relativi all’odierna ricorrente, da un lato, e la natura del contratto (i.e. di “trasmissione di diritti di proprietà intellettuale”), dall’altro, precludevano l’applicazione della disposizione richiamata; il secondo, in base al quale la pacifica esclusione dell’operatività dell’art. 1341 cod. civ. agli arbitrati esteri governati dalla Convenzione di New York del 10 giugno 1958 (resa esecutiva con legge 17 gennaio 1968 n. 62), era applicabile anche agli arbitrati diversi da quelli espressamente regolati dall’art. 1 della richiamata Convenzione (i.e. riconoscimento/esecuzione “delle sentenze arbitrali emesse, sul territorio di uno Stato diverso da quello dove sono domandati il riconoscimento e l’esecuzione, in controversie tra persone fisiche e giuridiche”, nonché “alle sentenze arbitrali non considerate nazionali nello Stato in cui il riconoscimento e l’esecuzione sono domandati”) ove caratterizzati da “profili di internazionalità”; ii) respinse l’ulteriore censura, rivolta contro il lodo definitivo, con cui si era ascritto al collegio arbitrale di non avere rilevato ex officio una nullità contrattuale della “Autorizzazione alla propagazione” per illiceità dell’oggetto, come diffusamente argomentato dalla M* A* con la comparsa conclusionale del 14 giugno 2021, anche sulla scorta di una dirimente sentenza della Corte di Giustizia medio tempore emessa. In proposito, la corte milanese osservò, innanzitutto, che “il legislatore, con il nuovo art. 829 c.p.c., non ammette tra i casi tassativi di nullità del lodo “la violazione delle regole di diritto relative al merito della controversia”, salvo che tale ipotesi di nullità sia stata “espressamente disposta dalle parti” ex art. 829, comma 3, c.p.c., ipotesi che non ricorre nel caso di specie. Pertanto, la violazione delle regole di diritto, in mancanza di espressa previsione, è ammissibile solo se ricorrono le ipotesi eccezionali di cui all’art. 829, terzo e quarto comma, c.p.c.: contrarietà all’ordine pubblico, controversie previste dall’art. 409 c.p.c. e violazione di regole di diritto concernenti la soluzione di questioni pregiudiziali su materia che non può essere oggetto di convenzione ed arbitrato”. Successivamente, descritte le argomentazioni con cui la M* A* aveva inteso giustificare la invocata violazione di principi di ordine pubblico, opinò che, per come testualmente formulata la censura
stessa, “non è dato ravvisare sotto quale profilo, non esplicitato, si debba ritenere violato l’ordine pubblico, tenuto in particolare conto che i principi di ordine pubblico vanno individuati nei principi fondamentali della nostra Costituzione o in quelle altre regole che, pur non trovando in essa collocazione, rispondono all’esigenza di carattere universale di tutelare i diritti fondamentali dell’uomo o che informano l’intero ordinamento di talché la loro lesione si traduce in uno stravolgimento dei valori fondanti dell’intero assetto ordinamentale. La censura, pertanto, si rivela priva di pregio. Conclusivamente, va osservato che (…) le censure concernenti violazioni di regole di diritto relative al merito della controversia sono inammissibili, non essendo prevista alcuna deroga, nella clausola compromissoria, al regime ordinario post Riforma, che ha invertito il principio regola/eccezione sul sindacato concernente gli errores in iudicando”.

3. Per la cassazione dell’appena descritta sentenza ha promosso ricorso M* A*, titolare dell’omonima ditta individuale, affidandosi a due motivi, illustrati anche da memoria ex art. 380-bis.1 cod. proc. civ. ha resistito, con controricorso, corredato da analoga memoria, la S* W*.
3.1. La Prima Sezione civile di questa Corte, assegnataria del procedimento, con ordinanza interlocutoria del 6/10 ottobre 2023, n. 28310, ha ritenuto che “La questione complessivamente posta dalle argomentazioni di cui al secondo motivo di ricorso – concernente la conformità, o non, all’ordine pubblico del potere contrattuale del titolare di una privativa comunitaria per ritrovati vegetali di sfruttarlo eventualmente in spregio ai princìpi fondanti dell’Unione Europea (di tutela della concorrenza e di salvaguardia della produzione agricola) che ne governano i limiti (anche tenuto conto di quanto sancito della sentenza della Corte di Giustizia dell’Unione Europea del 19 dicembre 2019, C-176/18, cd. caso Nadorcott) – rende opportuna la rimessione della causa alla pubblica udienza, stante la sua rilevanza (tenuto conto dei riflessi su controversie analoghe) e la carenza di precedenti specifici, nella giurisprudenza di legittimità, sugli aspetti rimarcati nella doglianza suddetta”. Pertanto, ha rinviato l’odierno procedimento all’udienza pubblica del 21 marzo 2024, in prossimità della quale entrambe le parti hanno depositato memoria ex art. 378 cod. proc. civ.

RAGIONI DELLA DECISIONE

1. Ancor prima di procedere alla descrizione ed allo scrutinio dei formulati motivi di ricorso, il Collegio ritiene di dover ribadire (cfr., amplius, Cass. n. 23485 del 2013, nonché, in senso sostanzialmente conforme, le più recenti Cass. n. 2985 del 2018, Cass. n. 2137 del 2022, Cass. n. 15619 del 2022 e Cass. n. 9434 del 2023) che quello di impugnazione per nullità del lodo arbitrale costituisce un giudizio a critica limitata, proponibile soltanto per determinati errores in procedendo specificamente previsti, nonché per inosservanza, da parte degli arbitri, delle regole di diritto nei limiti indicati dall’art. 829, comma 3, cod. proc. civ. (nel testo come modificato dal D.Lgs. n. 40 del 2006); in esso trova applicazione la regola della specificità della formulazione dei motivi, in considerazione della natura rescindente di tale giudizio e del fatto che solo il rispetto di detta regola può consentire al giudice, ed alla parte convenuta, di verificare se le contestazioni formulate corrispondano esattamente ai casi di impugnabilità stabiliti dalla menzionata norma.
1.1. Inoltre, nel ricorso per cassazione avverso la sentenza che abbia deciso su detta impugnazione, dovendosi verificare se la sentenza medesima sia adeguatamente e correttamente motivata in relazione alle ragioni di impugnazione del lodo, il sindacato di legittimità va condotto esclusivamente attraverso il riscontro della conformità a legge e della congruità della motivazione della sentenza che ha deciso sull’impugnazione del lodo. Ciò comporta che la relativa denuncia, per ottemperare all’onere della specificazione delle ragioni dell’impugnazione, non può esaurirsi nel richiamo di principi di diritto, con invito al giudice dell’impugnazione di controllarne l’osservanza da parte degli arbitri e della corte di appello, né, tanto meno, in una semplice richiesta di revisione delle valutazioni e dei convincimenti in diritto del giudice dell’impugnazione, ma esige, da un lato, un pertinente riferimento ai fatti ritenuti dagli arbitri, per rendere autosufficiente ed intellegibile la tesi secondo cui le conseguenze tratte da quei fatti violerebbero i principi medesimi (cfr. Cass. n. 23670 del 2006; Cass. nn. 6028 e 10209 del 2007; Cass. n. 21035 del 2009; Cass. n. 23485 del 2013; Cass. n. 15619 del 2022; Cass. n. 9434 del 2023); dall’altro, l’esposizione di argomentazioni intellegibili ed esaurienti ad illustrazione delle dedotte violazioni di norme o principi di diritto, con cui il ricorrente è chiamato a precisare in qual modo – se per contrasto con la norma indicata o con l’interpretazione della stessa fornita dalla giurisprudenza di legittimità o dalla prevalente dottrina – abbia avuto luogo la violazione nella quale si assume essere incorsa la pronuncia di merito (cfr. Cass. n. 9434 del 2023; Cass. n. 15619 del 2022; Cass. n. 23485 del 2013; Cass. n. 3383 del 2004; Cass. n. 12165 del 2000; Cass. n. 5633 del 1999).

2. Tanto premesso, i formulati motivi di ricorso denunciano, rispettivamente:
I) “Violazione e falsa applicazione, ai sensi dell’art. 360, comma 1, n. 3, c.p.c.”. Vengono contestati i due distinti percorsi argomentativi, già descritti, con cui la corte territoriale ha ritenuto pienamente valida ed efficace la clausola compromissoria di cui all’art. 9.8 del Contratto Principale, in forza della quale S* W* diede impulso al procedimento arbitrale culminato nei lodi oggetto della impugnazione di cui tuttora si discute. Assume la ricorrente che: i) nella specie, “È evidente dallo stesso tenore letterale del contratto tra il titolare di un diritto di proprietà industriale su scala mondiale e la totalità degli agricoltori interessati a sfruttarlo sul proprio appezzamento di terra, che si tratti del contratto standard tra la S* W* e tutti i “produttori qualificati” di cui alla premessa e nel quale, dettaglio non trascurabile, la S* W* è indicata con la propria denominazione mentre le controparti di ciascun contratto sono indicate con una definizione (i.e. il “Produttore Qualificato”). Oltre ad una totale mancanza di comprensione del rapporto oggetto del giudizio, la Corte d’Appello ha erroneamente valorizzato, quali elementi di specialità tali da escludere l’applicazione dell’art. 1341 c.c., sia le specifiche del terreno dell’odierna ricorrente (…), sia l’apodittica affermazione secondo cui la trasmissione di diritti di proprietà intellettuale, “presuppone un determinato grado di cooperazione, fiducia e intuitu personae” (…): caratteristiche – queste – del tutto incompatibili con uno schema contrattuale destinato a regolamentare una serie indefinita di rapporti con una pluralità indifferenziata di soggetti”. Sennonché, le uniche parti del contratto che identificano l’odierna ricorrente sono le sue generalità (nell’intestazione) e le specifiche del proprio terreno (negli allegati) e sono inserite, (…), in un progetto di distribuzione di rilevanti dimensioni, proclamato con chiarezza nelle premesse e tutt’altro che limitato all’impresa individuale “M* A*” (…). In questo contesto, è davvero incomprensibile come la Corte abbia potuto concludere che il contratto in questione fosse “incompatibile con uno schema contrattuale destinato a regolamentare una serie indefinita di rapporti con una pluralità indifferenziata di soggetti””; ii) “La circostanza che la M* A* abbia chiesto ed ottenuto, dopo la stipula del contratto, una singola modifica rispetto ad un impianto di norme integralmente dettato dalla S* W* e pedissequamente accettato, non consente affatto di concludere che il contratto sia stato negoziato. Ed è indicativo, a riguardo, che la modifica, lungi dall’avvenire sul contratto in questione mediante una riformulazione della clausola, sia stata invece redatta su un atto separato”; iii) “Il lodo non definitivo, al pari di quello definitivo, sono stati emessi dalla Camera Arbitrale di Milano, in Italia e secondo il diritto italiano. La circostanza che una delle parti sia una società estera non consente di escludere l’applicazione dell’art. 1341 c.c. sulla base della sussistenza di imprecisati “profili di internazionalità”; iv) “(…) la Corte d’appello ha invocato Cass. SS.UU., 22 maggio 1995, n. 5601 relativa alla sufficienza della forma scritta in relazione all’arbitrato estero ma, contrariamente alla sentenza richiamata, ne ha tratto la conseguenza che questa deroga valesse anche per lodi che presentino “profili di internazionalità”. (…). A tale ultima definizione, “lodi che presentino profili di internazionalità”, del tutto generica e priva di confini ben delineati, la Corte ha di fatto attribuito la qualità di elemento costitutivo di fattispecie, funzionale alla individuazione di una disciplina che prescinde completamente dalla scelta delle parti. Né si rilevano idonei a mantenere la decisione impugnata e le conseguenze che essa comporta, gli argomenti che la Corte ha qualificato come “teleologico” e come “a fortiori””;
II) “Violazione e falsa applicazione, ai sensi dell’art. 360, comma 1, n. 3, c.p.c., dell’art. 829, comma 3, c.p.c. e art. 13 del Regolamento (CE) n. 2100/94 del Consiglio, del 27 luglio 1994, concernente la privativa comunitaria per ritrovati vegetali”. La difesa della ricorrente: i) evidenzia, preliminarmente, che “la questione, relativa ad un contratto standard con tutti i “Produttori autorizzati” e dunque tutti gli agricoltori abilitati alla coltivazione delle piante su concessione della S* W*, quale titolare di un diritto di privativa, ha una portata ben più ampia del giudizio che ci occupa perché è in discussione, per la prima volta dinanzi a Codesta Corte, la conformità all’ordine pubblico del potere contrattuale del titolare della privativa di sfruttarlo in spregio ai principi fondanti dell’Unione Europea (di tutela della concorrenza e di salvaguardia della produzione agricola) che ne governano i limiti”; ii) riporta, poi, ampi stralci della propria comparsa conclusionale di appello in cui aveva argomentato la lamentata violazione e falsa applicazione dell’art. 13 del Regolamento (CE) n. 2100/94 (concernente la privativa comunitaria per ritrovati vegetali) e descritto i più recenti arresti della giurisprudenza comunitaria (non ancora intervenuti al momento dell’impugnazione), tra cui la sentenza della CGUE del 19 dicembre 2019, C-176/18, cd. caso “Nadorcott”, e censura la decisione impugnata nella parte in cui la corte d’appello ha ritenuto inammissibile la doglianza relativa alla violazione di regole di diritto qui richiamate per la mancanza del requisito della contrarietà all’ordine pubblico del vizio lamentato. Assume che “Sarebbe bastato che la Corte avesse letto i punti nn. 33 e 34 della sentenza Nadorcott, espressamente richiamati dall’odierna ricorrente, per fugare ogni dubbio sulla rilevanza della censura nell’ottica dell’art. 829, co. 3°, c.p.c.”.

3. Il primo di tali motivi si rivela complessivamente inammissibile alla stregua delle considerazioni tutte di cui appresso.
3.1. Come si è già riferito, la corte distrettuale ha disatteso la doglianza, proposta contro il lodo non definitivo, relativa alla – documentata e non contestata – omessa approvazione specifica della clausola compromissoria, con conseguente inefficacia ai sensi dell’art. 1341 cod. civ., sulla base di due distinte, autonome rationes decidendi, la prima delle quali (già precedentemente descritta nel Par. 2.1. dei “Fatti di causa”), resiste alla corrispondente censura oggi ad essa rivolta dalla M* A*.
3.2. Nella specie, infatti, proprio per quanto accertato dalla corte di appello (cfr. pag. 8-9 della sentenza oggi impugnata) circa la sussistenza di elementi specifici, nel “Contratto principale”, relativi alla odierna ricorrente ed alla natura del contratto medesimo, e, soprattutto, quanto all’avvenuta modifica ottenuta dalla M* A* (sebbene con un secondo contratto, denominato “Autorizzazione alla propagazione”, chiaramente volto, tuttavia, ad integrare la disciplina del primo), non sono configurabili le ipotesi di contratto per adesione o di condizioni generali di contratto, posto che, come opportunamente puntualizzato, ancora recentemente, da Cass. n. 8280 del 2023 (cfr. pag. 7-8 della sua motivazione), “la mera attività di formulazione del regolamento contrattuale è da tenere distinta dalla predisposizione delle condizioni generali di contratto, non potendo considerarsi tali le clausole contrattuali elaborate da uno dei contraenti in previsione e con riferimento ad un singolo, specifico negozio, a cui l’altro contraente possa, del tutto legittimamente, richiedere di apportare le necessarie modifiche dopo averne liberamente apprezzato il contenuto – Cass. n. 12153/2006, Cass. n. 2208/2002, Cass. n. 8513/2008 -. Possono, infatti, qualificarsi come contratti “per adesione”, rispetto ai quali sussiste l’esigenza della specifica approvazione scritta delle clausole vessatorie, soltanto quelle strutture negoziali destinate a regolare una serie indefinita di rapporti, tanto dal punto di vista sostanziale (se, cioè, predisposte da un contraente che esplichi attività contrattuale nei confronti di una pluralità indifferenziata di soggetti), quanto dal punto di vista formale (ove, cioè, predeterminate nel contenuto a mezzo di moduli o formulari utilizzabili in serie), mentre esulano da tale categoria i contratti predisposti – come nella specie – da uno dei due contraenti in previsione e con riferimento ad una singola, specifica vicenda negoziale, rispetto ai quali l’altro contraente può, del tutto legittimamente, richiedere ed apportare le necessarie modifiche dopo averne liberamente apprezzato il contenuto, nonché, a maggior ragione, quelli in cui il negozio sia stato concluso a seguito e per effetto di trattative tra le parti (Cass. 6753/2018)”. In senso sostanzialmente conforme ai principi appena riportati, peraltro, si vedano, nelle rispettive motivazioni, anche Cass. n. 7605 del 2015, pag. 3-4; Cass. n. 20461 del 2020, pag. 4-5; Cass. n. 10258 del 2022, pag. 6 Cass. n. 18428 del 2023, pag. 11).
3.2.1. Non essendo configurabili, dunque, nella specie, condizioni generali di contratto, né contratto per adesione, non assume più alcun rilievo il tema della mancata specifica sottoscrizione, ex artt. 1341 cod. civ., della clausola compromissoria in esame.
3.3. Ragioni di completezza, inoltre, impongono di rimarcare che, secondo la qui condivisa giurisprudenza di questa Corte, la valutazione circa la natura vessatoria di una clausola contrattuale è un giudizio di fatto, che può essere formulato soltanto interpretando la clausola stessa nel contesto complessivo del contratto, per stabilirne significato e portata (cfr. Cass. n. 10258 del 2022, pag. 5-6 della motivazione; Cass. n. 12125 del 2005; Cass. n. 4801 del 2000).
3.3.1. Non resta, dunque, che prendere atto dell’accertamento di merito effettuato dalla corte distrettuale, rispetto al quale le argomentazioni della censura, sul punto, appaiono sostanzialmente volte ad ottenerne un riesame al fine di ritenere configurabile, nell’odierna fattispecie, uno schema contrattuale destinato a regolamentare una serie indefinita di rapporti con una pluralità indifferenziata di soggetti, così da rendergli applicabile la disciplina di cui all’art. 1341 cod. civ. Il giudizio di legittimità, tuttavia, non può essere surrettiziamente trasformato in un nuovo, non consentito, ulteriore grado di merito, nel quale ridiscutere gli esiti istruttori espressi nella decisione impugnata, non condivisi e, per ciò solo, censurati al fine di ottenerne la sostituzione con altri più consoni alle proprie aspettative (cfr. Cass. n. 21381 del 2006, nonché, tra le più recenti, Cass. n. 8758 del 2017; Cass., SU, n. 34476 del 2019; Cass. nn. 32026 e 40493 del 2021; Cass. nn. 1822, 2195, 3250, 5490, 9352, 13408, 5237, 21424, 30435, 35041 e 35870 del 2022; Cass. nn. 1015, 7993, 11299, 13787, 14595, 17578, 27522, 30878 e 35782 del 2023; Cass. nn. 4582, 4979, 5043 e 6257 del 2024).
3.4. L’appena esposta conclusione rende inammissibile, poi, la doglianza de qua laddove contesta l’altra, autonoma, ratio decidendi – la ritenuta applicabilità anche agli arbitrati diversi da quelli espressamente regolati dall’art. 1 della Convenzione di New York del 10 giugno 1958 (resa esecutiva in Italia con la legge 17 gennaio 1968, n. 62), ove caratterizzati da “profili di internazionalità”, della pacifica esclusione dell’operatività dell’art. 1341 cod. civ. agli arbitrati esteri governati dalla richiamata Convenzione – della corte distrettuale sulla medesima questione. Dove trovare applicazione, infatti, il principio secondo cui, ove la corrispondente motivazione della sentenza sia sorretta da una pluralità di ragioni, distinte ed autonome, ciascuna delle quali giuridicamente e logicamente sufficiente a giustificare la decisione adottata sul punto, l’omessa o infruttuosa impugnazione di una di esse rende inammissibile, per difetto di interesse, la censura relativa alle altre, la quale, essendo divenuta definitiva l’autonoma motivazione non impugnata, non potrebbe produrre in alcun caso l’annullamento, in parte qua, della sentenza (cfr., ex multis, anche nelle rispettive motivazioni, Cass. n. 4067 del 2024; Cass. nn. 26801 e 4355 del 2023; Cass. n. 4738 del 2022; Cass. nn. 22697 e 3194 del 2021; Cass., SU, n. 10012 del 2021; Cass. n. 15075 del 2018; Cass. nn. 18641 e 15350 del 2017).

4. Il secondo motivo di ricorso pone in discussione, per la prima volta dinanzi a questa Corte, il tema della conformità, o non, all’ordine pubblico del potere contrattuale del titolare della privativa di sfruttarlo in spregio ai principi fondanti dell’Unione Europea (di tutela della concorrenza e di salvaguardia della produzione agricola) che ne governano i limiti. Nello specifico, la privativa riguarda un particolare a varietà vegetale denominata “Sugranineteen” che produce uva rossa da tavola senza semi, commercializzata sotto il marchio registrato “Scarlotta seedless”.
4.1. Pertanto, appare utile, preliminarmente, schematizzare i rapporti che intercorrono, generalmente, tra gli operatori nella filiera dell’uva protetta da diritti di privativa.
4.1.1. A monte vi sono le società breeder, titolari dei diritti di proprietà intellettuale sui cultivar brevettati; queste imprese danno in licenza d’uso i vitigni ai licenziatari, che possono essere sia i produttori agricoli sia, in misura prevalente, soggetti imprenditoriali che si occupano della distribuzione/commercializzazione dell’uva. Laddove il licenziatario sia l’impresa di distribuzione/commercializzazione dell’uva, esso stipula, direttamente o per conto del breeder, un contratto di sublicenza con il produttore. La licenza d’uso del vitigno non prevede il passaggio di proprietà della pianta che rimane di proprietà del breeder per tutto il periodo del contratto; il produttore è invece il proprietario dei frutti. Può verificarsi, tra l’altro, che i breeder subordinino la fornitura in licenza dei vitigni ai coltivatori al conferimento ai propri distributori dell’intera produzione di uva ottenuta o che i coltivatori non risultino autorizzati a vendere ad altri il prodotto eventualmente rifiutato dal distributore indicato dal breeder per motivi connessi a scarsa qualità.
4.2. La concreta vicenda da cui ha avuto origine la odierna lite è stata già esaustivamente descritta nei Par. da 1. ad 1.3. dei “Fatti di causa”, che, per intuitive ragioni di sintesi, devono intendersi interamente qui riprodotti. Allo stesso modo, e per le medesime ragioni, va qui richiamato il contenuto del Par. 2.1. dei “Fatti di causa”, nella parte in cui è stata riportata la motivazione con cui la corte distrettuale ha respinto la censura, rivolta dalla M* A* contro il lodo definitivo, con cui, tra l’altro, si era ascritto al collegio arbitrale di non avere rilevato ex officio una nullità contrattuale della “Autorizzazione alla propagazione” per illiceità dell’oggetto, come diffusamente argomentato dalla odierna ricorrente con la comparsa conclusionale del 14 giugno 2021, anche sulla scorta della sentenza, asseritamente dirimente, della Corte di Giustizia del 19 dicembre 2019, causa C-176/2018 (cd. caso Nadorcott) medio tempore emessa. È utile, peraltro, ricordare che la corte territoriale (cfr. pag. 13 e ss. della sentenza impugnata), dopo aver puntualizzato che “il legislatore, con il nuovo art. 829 c.p.c., non ammette tra i casi tassativi di nullità del lodo “la violazione delle regole di diritto relative al merito della controversia”, salvo che tale ipotesi di nullità sia stata “espressamente disposta dalle parti” ex art. 829, comma 3, c.p.c.”, ha precisato che: i) quest’ultima ipotesi “non ricorre nel caso di specie. Pertanto, la violazione delle regole di diritto, in mancanza di espressa previsione, è ammissibile solo se ricorrono le ipotesi eccezionali di cui all’art. 829, terzo e quarto comma, c.p.c.: contrarietà all’ordine pubblico, controversie previste dall’art. 409 c.p.c. e violazione di regole di diritto concernenti la soluzione di questioni pregiudiziali su materia che non può essere oggetto di convenzione ed arbitrato”; ii) “non è dato ravvisare sotto quale profilo, non esplicitato, si debba ritenere violato l’ordine pubblico, tenuto in particolare conto che i principi di ordine pubblico vanno individuati nei principi fondamentali della nostra Costituzione o in quelle altre regole che, pur non trovando in essa collocazione, rispondono all’esigenza di carattere universale di tutelare i diritti fondamentali dell’uomo o che informano l’intero ordinamento di talché la loro lesione si traduce in uno stravolgimento dei valori fondanti dell’intero assetto ordinamentale”.
4.3. Fermo quanto precede, la decisione del motivo impone, dunque, al Collegio di interrogarsi, innanzitutto, circa il se, ed eventualmente in quali limiti, i principi sanciti dalla menzionata sentenza della Corte di Giustizia del 19 dicembre 2019, causa C-176/2018, siano concretamente utilizzabili, o non, nella odierna fattispecie. Successivamente, in ipotesi di soluzione positiva di tale quesito, occorrerà individuare le conseguenze dell’applicazione di quei principi sul rapporto intercorso tra la M* A* e la S* W*, ricordandosi che lo stesso è stato dichiarato risolto dal collegio arbitrale, con il lodo definitivo, per non avere la odierna ricorrente “adempiuto al Contratto vendendo l’uva Scarlotta Seedless a distributori non autorizzati”. Da ultimo, sempre in detta ipotesi positiva, dovrà stabilirsi se sia configurabile, o meno, una contrarietà all’ordine pubblico della pattuizione complessivamente dalle clausole contrattuali nn. 3.4 e 4.2. del medesimo Contratto, così da rendere comunque sindacabile il lodo impugnato ai sensi dell’art. 829, comma 3, cod. proc. civ.
4.3.1. Tutto ciò, peraltro, senza dimenticare che, come ribadito da Cass. n. 5381 del 2017 (cfr. pag. 4-5 della motivazione), “nell’ordinamento interno le pronunce del giudice di Lussemburgo definiscono la portata della norma Eurounitaria così come avrebbe dovuto essere intesa ed applicata fin dal momento della sua entrata in vigore. Per tale motivo, dette pronunce estendono i loro effetti ai rapporti sorti in epoca precedente, purché non esauriti (cfr. Corte Giust. 11 agosto 1995, cause riunite da C-367/93 a C-377/93, Roders e a., punto 42, e 3 ottobre 2002, causa C-347/00, Barreira Perez, punto 44). I superiori principi, pienamente coerenti rispetto al meccanismo del rinvio pregiudiziale – ora disciplinato dall’art. 267 TFUE – ed ai compiti nomofilattici attribuiti alla Corte di Lussemburgo dal Trattato UE, da considerare assolutamente fermi e consolidati nella giurisprudenza della Corte di Lussemburgo (v. ex multis, Corte Giust., 17 febbraio 2005, causa C -453- 02 e C-462/02, Finanzamt Gladbeck, p. 41 ), risultano parimenti radicati nella giurisprudenza della Corte costituzionale e di questa stessa Corte (…). L’interpretazione di una norma di diritto UE fornita dalla Corte di Giustizia delle Comunità Europee si limita a chiarire ed a precisare il significato e la portata della norma stessa, così come essa avrebbe dovuta essere interpretata sin dal momento della sua entrata in vigore, con la conseguenza che la norma interpretata – purché dotata di efficacia diretta (in quanto dalla stessa i soggetti operanti all’interno degli ordinamenti degli Stati membri possono trarre situazioni giuridiche direttamente tutelabili in giudizio) – può e deve essere applicata dal giudice anche a rapporti giuridici sorti e sviluppatisi prima della sentenza interpretativa, salvo che, in via eccezionale e in applicazione del principio generale della certezza del diritto inerente all’ordinamento giuridico comunitario, la stessa Corte – e non anche invece il giudice nazionale – abbia limitato la possibilità per gli interessati di far valere una disposizione da essa interpretata onde rimettere in discussione rapporti giuridici costituiti in buona fede ovvero al fine di evitare gravi inconvenienti (cfr. Cass, n. 5708 del 10/03/2009)”.
4.3.2. Il tema, quindi, è quello della vincolatività della pronuncia resa in ambito di procedimento pregiudiziale cd. interpretativo della Corte di Giustizia. Si tratta, cioè, di indagare la efficacia “normativa” che quella stessa statuizione (che ha effetti certamente vincolanti per il giudice a quo. Cfr. Corte cost. 24 giugno 2010, n. 227) deve produrre nei confronti di altri casi, perché, come osservatosi in dottrina, qui il tema del precedente si intreccia e rischia di confondersi con quello della efficacia soggettiva delle pronunce della Corte. Tanto è vero che si è parlato pure di “autorità della cosa interpretata”.
4.3.3. La posizione della dottrina maggioritaria, con varie sfumature, è nel senso di riconoscere alle decisioni pregiudiziali della Corte capacità estensiva nei confronti di altri procedimenti, in forza di una loro dichiarata efficacia erga omnes o almeno de facto ultra partes, per la necessaria garanzia della uniforme applicazione dell’interpretazione del diritto euro-unitario, assistita dall’obbligo degli Stati membri di adottare ogni misura “atta ad assicurare l’esecuzione degli obblighi derivanti dai trattati o conseguenti agli atti delle istituzioni dell’Unione” (art. 4, TUE). D’altra parte, in alcune circostanze, anche questa Corte si è spinta a parlare di efficacia “vincolante” o “normativa” delle pronunce interpretative del giudice sovranazionale, evidentemente sul presupposto che esso svolga una funzione nomofilattica equiparabile a quella assegnata dall’ordinamento interno alla Cassazione (significativo, in proposito, si rivela il passaggio motivazionale di Cass. n. 20216 del 2022, in cui si afferma che “l’intervento, nel corso del giudizio di legittimità, di una pronuncia della Corte di Giustizia della UE, resa nell’esercizio dei suoi poteri di interpretazione vincolante di una disposizione dell’ordinamento comunitario, non è qualificabile come ius superveniens, rilevando la suddetta pronuncia solo sotto il profilo del riscontro della compatibilità di tale norma interna con le regole comunitarie (ex plurimis Cass. n. 5991/1987). Le sentenze della Corte di Giustizia dell’UE hanno, infatti, efficacia vincolante, diretta e prevalente sull’ordinamento nazionale, così confermato dalla Corte Costituzionale con le sentenze n. 168/1981 e n. 170/1984”).
4.3.4. Questa capacità espansiva dell’interpretazione del giudice europeo, peraltro, va riferita alla sua astratta possibilità di estensione, riguardando il se della applicazione a procedimenti diversi da quelli in cui l’interpretazione è elaborata. Diversamente, la teoria del precedente giudiziale si occupa del quando (nel senso di a quali condizioni) tale interpretazione possa, o addirittura debba, applicarsi ad altri procedimenti, in quanto soggetti a quello che può essere definito il medesimo status normativo. D’altronde, di questo si ragiona allorché ci si occupa del vincolo e dei limiti dell’interpretazione conforme richiesta al giudice comune, inteso come giudice successivo nella logica del cd. precedente verticale. Pertanto è esatto il rilievo dottrinario per cui la “decisione resa in sede di rinvio pregiudiziale non solo è vincolante per il giudice che ha sollevato la questione, ma spiega i propri effetti anche rispetto a qualsiasi altro caso che debba essere deciso in applicazione della medesima disposizione di diritto dell’Unione interpretata dalla Corte”.
4.4. Tanto premesso, è doveroso ricordare, immediatamente, la concreta fattispecie su cui è intervenuta la menzionata decisione del 19 dicembre 2019, causa C-176/18 della Corte di Lussemburgo.
4.4.1. Dalla sua lettura si ricava che la stessa ha riguardato la vicenda di un agricoltore spagnolo che aveva acquistato, presso un vivaio di piante, una varietà di mandarino senza semi, “Nadorcott”, prima della data di concessione della relativa Privativa Comunitaria per Ritrovati Vegetali (CPVR).
4.4.1.1. Il titolare del diritto, Compania de Variedades Vegetales Protegidas (CVVP) aveva agito contro l’agricoltore, chiedendo la protezione provvisoria per gli atti compiuti prima della concessione, rivendicando, invece, l’infrazione ex art. 94 del Regolamento (CE) n. 2100/94 del Consiglio, del 27 luglio 1994 (concernente la privativa comunitaria per ritrovati vegetali) per gli atti compiuti dopo tale data e chiedendo la cessazione di tutti gli atti non autorizzati (compresa la commercializzazione dei frutti) ed il risarcimento dei danni.
4.4.1.2. In primo grado, il tribunale adito aveva ritenuto il procedimento prescritto ai sensi dell’art. 96 del Regolamento. In sede di appello, le domande erano state rigettate nel merito, perché l’agricoltore aveva acquistato le piante in buona fede da un vivaio aperto al pubblico e perché l’acquisto era avvenuto in una data precedente a quella della concessione del CPVR.
4.4.1.3. Successivamente, l’adita Corte Suprema spagnola si è chiesta “se la messa a coltura di costituenti vegetali di una varietà protetta e la raccolta dei frutti di tali costituenti debbano essere considerate come un atto riguardante i “costituenti varietali” che richiede, ai sensi dell’articolo 13, paragrafo 2, lettera a), del regolamento n. 2100/94, la previa autorizzazione del titolare della privativa comunitaria per ritrovati vegetali relativa alla varietà vegetale, a pena di configurare un atto di infrazione, o piuttosto un atto riguardante i “prodotti del raccolto”, il quale, secondo il medesimo giudice, è soggetto a tale obbligo di previa autorizzazione soltanto alle condizioni di cui all’articolo 13, paragrafo 3, di tale regolamento. Nell’ipotesi in cui l’articolo 13, paragrafo 3, del regolamento n. 2100/94 sia applicabile alla causa dinanzi ad esso pendente, (…) si chiede, inoltre, se la condizione relativa ad una “utilizzazione non autorizzata dei costituenti varietali della varietà protetta”, ai sensi di tale disposizione, possa essere soddisfatta qualora la varietà di cui trattasi, di cui sono stati acquistati i piantoni durante il periodo compreso tra la pubblicazione della domanda di privativa e l’effettiva concessione della stessa, benefici soltanto di una “protezione provvisoria”, conformemente all’articolo 95 di tale regolamento”.
4.4.1.4. Ha deciso, quindi, di sospendere il procedimento innanzi ad essa e di sottoporre alla Corte di Giustizia le seguenti questioni pregiudiziali:
“1) Nell’ipotesi in cui un agricoltore abbia acquistato presso un vivaio (esercizio commerciale di terzi) piantoni di una varietà vegetale e li abbia piantati prima che producesse effetti la concessione della privativa per tale varietà, se l’attività posteriore realizzata dall’agricoltore, consistente nella raccolta dei successivi frutti degli alberi, per essere ricompresa nella sfera di applicazione dello “ius prohibendi” del paragrafo 2 dell’articolo 13 del regolamento (n. 2100/94), richieda che siano soddisfatti i requisiti previsti nel paragrafo 3 di tale articolo, in quanto si ritiene di essere in presenza di “prodotti del raccolto”. Oppure se si debba intendere che tale attività di raccolta costituisca un atto di produzione o riproduzione della varietà che dà luogo a “prodotti del raccolto” il cui divieto da parte del titolare della varietà vegetale non richiede che siano soddisfatti i requisiti di cui al paragrafo 3 (di detto articolo).
2) Se sia conforme al paragrafo 3 (dell’articolo 13 del regolamento n. 2100/94) un’interpretazione secondo la quale il sistema di tutela a cascata riguardi tutti gli atti menzionati nel paragrafo 2 (dell’articolo 13 di tale regolamento) che si riferiscano ai “prodotti del raccolto”, inclusa la stessa raccolta, oppure solamente gli atti posteriori alla produzione di tale materiale del raccolto, quali il magazzinaggio e la sua commercializzazione.
3) Se, nell’applicazione del sistema di estensione della tutela a cascata ai “prodotti del raccolto” ai sensi del paragrafo 3 dell’articolo 13 del regolamento n. 2100/94, perché sia soddisfatta la prima condizione, sia necessario che l’acquisto dei piantoni sia avvenuto dopo che il titolare abbia ottenuto la privativa comunitaria per la varietà vegetale, oppure se sia sufficiente che in tale momento il titolare godesse della protezione provvisoria, poiché l’acquisto è stato effettuato nel periodo compreso tra la pubblicazione della domanda e il momento in cui iniziano a decorrere gli effetti della concessione della privativa per la varietà vegetale”.
4.5. Quanto, invece, al rapporto, per cui è causa, tra la M* A* e la S* W*, esso, pacificamente sorto dopo la concessione, in favore di quest’ultima, del CPVR riguardante la varietà di uva Sugranineteen – Scarlotta Seedless, ha avuto ad oggetto un contratto a natura mista (così definito nel lodo
definitivo), vale a dire un contratto di locazione che coinvolge diritti di proprietà intellettuale.
4.5.1. Il Contratto Principale, infatti, era un “contratto di locazione”, come risulta dal suo titolo completo (“Contratto di locazione con produttore di uve”), dall’espresso riferimento alle disposizioni del codice civile italiano sui contratti di locazione (l’articolo 3.4 del Contratto fa menzione dell’articolo 1615 cod. civ., rubricato “Gestione e produzione di un bene produttivo”) e dall’oggetto del contratto. Tuttavia, mentre l’oggetto principale del Contratto era la locazione delle viti di Sugranineteen, l’uso di tali beni (in particolare, per quanto qui di interesse, dei frutti di tali viti) era condizionato dai diritti di proprietà intellettuale di S* W* sui prodotti in locazione e la maggior parte delle disposizioni del Contratto trattavano specificatamente tali diritti di PI (si vedano, in particolare l’articolo sulle “Definizioni”, l’art. 3 su “diritti di non riproduzione/proprietà”, l’art. 4 su “commercializzazione e distribuzione: uso dei marchi di S* W*”).
4.6. È innegabile, quindi, che la fattispecie concreta su cui è intervenuta la sentenza della Corte di Giustizia del 19 dicembre 2019, causa C-176/18, differisce da quella per cui oggi è causa.
4.6.1. Ciò non esclude, tuttavia, la necessità di verificare se, almeno una parte dei principi dettati nella menzionata sentenza – quelli, cioè, aventi carattere generale, involgendo l’interpretazione del contesto normativo (disciplina della Convenzione UPOV e del Regolamento (CE) 2100/94), ivi richiamato, perché rivelatisi essere il presupposto del principio specificamente dettato, poi, per la vicenda all’esame del giudice spagnolo -, sia comunque utilizzabile anche in questa sede.
4.7. Orbene, il contesto normativo esaminato dalla CGUE ha riguardato:
A) La Convenzione internazionale per la protezione delle novità vegetali, del 2 dicembre 1961, nella sua versione riveduta il 19 marzo 1991 (in prosieguo: la “convenzione UPOV”), approvata a nome della Comunità europea con decisione del Consiglio, del 30 maggio 2005.
Ai sensi dell’articolo 14 di tale Convenzione: “1. (Atti relativi al materiale di riproduzione o di moltiplicazione) a) Salvo gli articoli 15 e 16, l’autorizzazione del costitutore è richiesta per i seguenti atti compiuti in relazione al materiale di riproduzione o di moltiplicazione della varietà protetta: i) produzione o riproduzione; ii) condizionamento a scopo di riproduzione o moltiplicazione; iii) offerta in vendita; iv) vendita o qualsiasi altra forma di commercializzazione; v) esportazione; vi) importazione; vii) detenzione per uno degli scopi previsti ai punti da i) a vi) sopraelencati. b) Il costitutore può subordinare la propria autorizzazione a condizioni e limitazioni. 2. (Atti relativi al prodotto della raccolta) Salvo gli articoli 15 e 16, l’autorizzazione del costitutore è richiesta per gli atti menzionati ai punti da i) a vii) del paragrafo 1, lettera a), compiuti in relazione al prodotto della raccolta, comprese piante intere e parti di piante, ottenuto mediante l’utilizzazione non autorizzata di materiale di riproduzione o di moltiplicazione della varietà protetta, a meno che il costitutore non abbia potuto esercitare ragionevolmente il proprio diritto in relazione al suddetto materiale di riproduzione o di moltiplicazione.(…)”.
B) Il Regolamento (CE) n. 2100/94.
Ai sensi del quattordicesimo, diciassettesimo, diciottesimo, ventesimo e ventinovesimo considerando del Regolamento n. 2100/94: “considerando che, per garantire effetti uniformi del diritto comunitario di tutela delle nuove varietà vegetali in tutta la Comunità, le transazioni commerciali soggette al consenso del titolare devono essere chiaramente definite; che, da un lato, la portata della tutela deve essere ampliata rispetto alla maggior parte dei sistemi nazionali onde includere taluni materiali della varietà per tener conto degli scambi con territori che non fanno parte della Comunità e in cui non vige un sistema di tutela; che, d’altro canto, l’introduzione del principio di esaurimento dei diritti deve garantire che la protezione non sia eccessiva; (…) considerando che l’esercizio del diritto comunitario di tutela delle nuove varietà vegetali deve essere soggetto a restrizioni previste nel contesto di disposizioni adottate nell’interesse pubblico; considerando che ciò include la salvaguardia della produzione agricola; che a tal fine è necessario autorizzare gli agricoltori ad usare i prodotti del raccolto per la moltiplicazione a determinate condizioni; (…) considerando che in taluni casi si devono altresì prevedere diritti di sfruttamento obbligatorio nell’interesse pubblico, che può includere la necessità di approvvigionare il mercato di materiale che presenti determinate caratteristiche o di mantenere gli incentivi per la selezione costante di varietà migliorate; (…) considerando che il presente regolamento tiene conto delle convenzioni internazionali esistenti quali la (Convenzione UPOV) (…)”.
L’art. 5 di tale Regolamento, rubricato “Oggetto della privativa comunitaria per ritrovati vegetali”, al suo paragrafo 3, prevede quanto segue: “Un insieme vegetale consiste di vegetali interi o di parti di vegetali, nella misura in cui tali parti di vegetali siano in grado di produrre vegetali interi, denominati entrambi in appresso “costituenti varietali””.
Il suo successivo art. 13, rubricato “Diritti dei titolari della privativa comunitaria per ritrovati vegetali e atti vietati”, dispone che:
“1. In virtù della privativa comunitaria per ritrovati vegetali il titolare o i titolari di tale privativa, in appresso denominati “il titolare”, hanno facoltà di effettuare in ordine alle varietà gli atti elencati al paragrafo 2.
2. Fatte salve le disposizioni degli articoli 15 e 16, gli atti indicati in appresso effettuati in ordine a costituenti varietali, o al materiale del raccolto della varietà protetta, in appresso denominati globalmente “materiali”, richiedono l’autorizzazione del titolare:
a) produzione o riproduzione (moltiplicazione),
b) condizionamento a fini di moltiplicazione,
c) messa in vendita,
d) vendita o altra commercializzazione,
e) esportazione dalla Comunità,
f) importazione nella Comunità,
g) magazzinaggio per uno degli scopi di cui alle lettere da a) a f).
Il titolare può subordinare la sua autorizzazione a determinate condizioni e limitazioni.
3. Le disposizioni del paragrafo 2 si applicano a prodotti del raccolto soltanto qualora essi siano stati ottenuti mediante un’utilizzazione non autorizzata dei costituenti varietali della varietà protetta e a meno che il titolare abbia avuto una congrua opportunità di esercitare il suo diritto in relazione ai suddetti costituenti varietali. (…)”.
L’art. 16 del medesimo regolamento, rubricato “Esaurimento della privativa comunitaria per ritrovati vegetali”, sancisce che: “La privativa comunitaria per ritrovati vegetali non si estende agli atti riguardanti il materiale della varietà protetta o di una varietà contemplata dalle disposizioni dell’articolo 13, paragrafo 5, che sia stat(o) cedut(o) ad altri in qualsiasi parte della Comunità dal titolare o con il suo consenso, o qualsiasi materiale derivante da detto materiale, a meno che tali atti: a) siano relativi all’ulteriore moltiplicazione della varietà in questione, salvo se tale moltiplicazione era prevista al momento della cessione del materiale, oppure b) siano relativi all’esportazione di costituenti della varietà in paesi terzi dove non siano protette le varietà del genere o specie cui appartiene la varietà, salvo se il materiale esportato è destinato al consumo finale”.
Il successivo art. 94, rubricato “Infrazioni”, prevede che: “1. Chiunque: a) compia senza esservi autorizzato uno degli atti contemplati all’articolo 13, paragrafo 2, nei confronti di una varietà oggetto di una privativa comunitaria per ritrovati vegetali, o b) ometta l’uso corretto di una denominazione varietale come indicato all’articolo 17, paragrafo 1 o ometta le pertinenti informazioni di cui all’articolo 17, paragrafo 2, o c) utilizzi, contrariamente al disposto dell’articolo 18, paragrafo 3, la denominazione varietale di una varietà oggetto di una privativa comunitaria per ritrovati vegetali o una denominazione che può essere confusa con la denominazione suddetta, può essere oggetto di un’azione intentata dal titolare per far cessare la violazione o per ottenere un’equa compensazione o per entrambe le cose. 2. Chiunque agisca deliberatamente o per negligenza è tenuto fra l’altro a risarcire il danno subito dal titolare per l’atto di cui trattasi. Nel caso di colpa lieve, il risarcimento può essere ridotto in proporzione senza tuttavia essere inferiore al vantaggio ottenuto dall’autore dell’infrazione per il fatto di averla compiuta”.
Infine, l’art. 95 è così formulato: “Il titolare può esigere un indennizzo adeguato da parte di chiunque abbia commesso, nel periodo compreso fra la pubblicazione della domanda di privativa comunitaria per ritrovati vegetali e la concessione della stessa, un atto che gli sarebbe stato vietato, dopo tale periodo, in virtù della privativa comunitaria per ritrovati vegetali”.
4.8. Orbene, rispondendo alla prima ed alla seconda delle questioni pregiudiziali precedentemente riportate nel Par. 4.4.1.4. della presente motivazione, la CGUE ha affermato che “l’articolo 13, paragrafo 2, lettera a), e paragrafo 3, del regolamento n. 2100/94 deve essere interpretato nel senso che l’attività di messa a coltura di una varietà protetta e di raccolta dei frutti della stessa, che non possono essere utilizzati come materiale di moltiplicazione, richiede l’autorizzazione del titolare della privativa comunitaria per ritrovati vegetali relativa alla suddetta varietà vegetale nei limiti in cui siano soddisfatte le condizioni previste all’articolo 13, paragrafo 3, di tale regolamento”.
4.8.1. A tale conclusione essa è giunta alla stregua delle considerazioni di cui appresso, muovendo dal rilievo che, “come risulta, in modo concordante, dalle osservazioni scritte presentate alla Corte, il frutto raccolto dai mandarini della varietà Nadorcott, di cui al procedimento principale, non può essere utilizzato come materiale di moltiplicazione dei vegetali di tale varietà vegetale”.
4.8.2. Secondo quella Corte, “In tali circostanze, si deve intendere che, con la prima e la seconda questione, che occorre esaminare congiuntamente, il giudice del rinvio chieda, in sostanza, se l’articolo 13, paragrafo 2, lettera a), e paragrafo 3, del regolamento n. 2100/94 debba essere interpretato nel senso che l’attività di messa a coltura di una varietà protetta e di raccolta dei frutti della stessa, che non possono essere utilizzati come materiale di moltiplicazione, richiede l’autorizzazione del titolare di tale varietà vegetale, nei limiti in cui siano soddisfatte le condizioni previste al paragrafo 3 di detto articolo.
A tale riguardo, occorre ricordare che, conformemente all’articolo 13, paragrafo 2, lettera a), del regolamento n. 2100/94, è richiesta l’autorizzazione del titolare della privativa per una varietà vegetale per gli “atti di produzione o riproduzione (moltiplicazione)” relativi ai “costituenti varietali” o al “materiale del raccolto” di una varietà protetta.
Sebbene detta disposizione si riferisca sia ai costituenti varietali sia al materiale del raccolto della varietà protetta, che essa denomina complessivamente il “materiale”, tuttavia la tutela prevista per queste due categorie differisce. Infatti, l’articolo 13, paragrafo 3, di tale regolamento precisa che, per quanto riguarda gli atti di cui al paragrafo 2 di tale articolo relativi al materiale del raccolto, una siffatta autorizzazione è necessaria soltanto qualora quest’ultimo sia stato ottenuto mediante un’utilizzazione non autorizzata dei costituenti varietali della varietà protetta e alla condizione che il titolare della stessa non abbia avuto una congrua opportunità di esercitare il suo diritto in relazione ai costituenti varietali della medesima varietà protetta. Pertanto, l’autorizzazione richiesta, ai sensi dell’articolo 13, paragrafo 2, lettera a), di detto regolamento, da parte del titolare di una privativa comunitaria per ritrovati vegetali, è necessaria, per quanto riguarda atti relativi al materiale del raccolto, soltanto qualora siano soddisfatte le condizioni previste al paragrafo 3 di tale articolo.
Pertanto, si deve considerare che il regolamento n. 2100/94 prevede una tutela “primaria” applicabile alla produzione o alla riproduzione di costituenti varietali, conformemente all’articolo 13, paragrafo 2, lettera a), di tale regolamento. Il materiale del raccolto è oggetto, da parte sua, di una tutela “secondaria” che, pur essendo parimenti menzionata a tale disposizione, è ampiamente limitata dalle condizioni supplementari previste al paragrafo 3 del medesimo articolo (v., in tal senso, sentenza del 20 ottobre 2011, Greenstar Kanzi Europe, C 140/10, EU:C:2011:677, punto 26).
Pertanto, al fine di determinare se e a quali condizioni l’articolo 13, paragrafo 2, lettera a), del regolamento n. 2100/94 si applichi all’attività di messa a coltura di una varietà vegetale protetta e di raccolta dei frutti di tale varietà che non possono essere utilizzati come materiale di moltiplicazione, occorre esaminare se tale attività possa dar luogo alla produzione o alla riproduzione di costituenti varietali o del materiale del raccolto della varietà protetta.
A tale riguardo, occorre constatare che, tenuto conto del significato abituale dei termini “produzione” e “riproduzione” utilizzati in tale disposizione, quest’ultima si applica agli atti mediante i quali sono generati nuovi costituenti varietali o materiale del raccolto.
Inoltre, occorre ricordare che l’articolo 5, paragrafo 3, del regolamento n. 2100/94 definisce la nozione di “costituenti varietali” come riguardante i vegetali interi o le parti di vegetali, nella misura in cui siano in grado di produrre vegetali interi.
Orbene, nel caso di specie, il frutto raccolto dagli alberi della varietà di cui trattasi nel procedimento principale, come emerge dal punto 20 della presente sentenza, non può essere utilizzato come materiale di moltiplicazione dei vegetali di tale varietà.
Pertanto, la messa a coltura di una siffatta varietà protetta e la raccolta dei frutti dei piantoni di tale varietà non possono essere qualificate come “atto di produzione o di riproduzione (moltiplicazione)” di costituenti varietali, ai sensi dell’articolo 13, paragrafo 2, lettera a), del regolamento n. 2100/94, ma devono essere considerate come la produzione di materiale del raccolto che richiede l’autorizzazione del titolare della privativa comunitaria per ritrovati vegetali, conformemente a tale disposizione letta in combinato disposto con l’articolo 13, paragrafo 3, di detto regolamento, soltanto nei limiti in cui tale materiale del raccolto sia stato ottenuto mediante l’utilizzazione non autorizzata dei costituenti varietali della varietà protetta, a meno che detto titolare non abbia avuto una congrua opportunità di esercitare il suo diritto in relazione ai suddetti componenti varietali.
L’importanza che riveste la capacità di moltiplicazione per l’applicazione dell’articolo 13, paragrafo 2, lettera a), di tale regolamento agli atti di produzione o di riproduzione, al di fuori dei casi in cui le condizioni di cui al paragrafo 3 di tale articolo siano soddisfatte per quanto riguarda il materiale del raccolto, è avvalorata dal contesto in cui si inserisce tale articolo 13.
In particolare, dalle disposizioni dell’articolo 16 del regolamento n. 2100/94, relative all’esaurimento della privativa comunitaria per ritrovati vegetali, risulta che tale privativa si estende agli atti riguardanti il materiale della varietà protetta che sia stato ceduto ad altri dal titolare o con il suo consenso soltanto nei limiti in cui tali atti siano relativi, in particolare, a un’ulteriore moltiplicazione della varietà di cui trattasi, non consentita dal titolare.
Per quanto riguarda gli obiettivi del regolamento n. 2100/94, in particolare dal quinto, dal quattordicesimo e dal ventesimo considerando di tale regolamento risulta che, sebbene il regime istituito dall’Unione sia inteso a concedere una tutela ai costitutori che sviluppano nuove varietà al fine di incentivare, nell’interesse pubblico, la selezione e lo sviluppo di nuove varietà, tale tutela non deve andare oltre quanto è indispensabile per incentivare detta attività, a pena di compromettere la tutela degli interessi pubblici costituiti dalla salvaguardia della produzione agricola, l’approvvigionamento del mercato di materiale che presenti determinate caratteristiche o di compromettere l’obiettivo stesso di continuare ad incoraggiare la selezione costante di varietà migliorate. In particolare, secondo il combinato disposto del diciassettesimo e del diciottesimo considerando di detto regolamento, la produzione agricola costituisce un interesse pubblico che giustifica l’assoggettamento a restrizioni dell’esercizio dei diritti conferiti dalla privativa comunitaria per ritrovati vegetali. Al fine di rispondere a tale obiettivo, l’articolo 13, paragrafo 3, del regolamento n. 2100/94 dispone che la tutela conferita dal paragrafo 2 di tale articolo al titolare di una privativa comunitaria per ritrovati vegetali si applica soltanto a determinate condizioni ai “prodotti del raccolto”.
Per contro, l’interpretazione secondo cui l’articolo 13, paragrafo 2, del regolamento n. 2100/94 riguarderebbe anche, indipendentemente dalle condizioni previste al paragrafo 3 di tale articolo, l’attività consistente nella raccolta dei frutti di una varietà protetta, senza che tali frutti possano essere utilizzati a fini di moltiplicazione di tale varietà, sarebbe incompatibile con detto obiettivo, in quanto avrebbe l’effetto di privare di ogni utilità il paragrafo 3 di tale articolo e, pertanto, di mettere in discussione il regime di tutela a cascata stabilito all’articolo 13, paragrafi 2 e 3, di tale regolamento.
Inoltre, l’interesse pubblico connesso alla salvaguardia della produzione agricola, di cui al diciassettesimo e al diciottesimo considerando del regolamento n. 2100/94, sarebbe potenzialmente rimesso in discussione se i diritti conferiti al titolare di una privativa comunitaria per ritrovati vegetali dall’articolo 13, paragrafo 2, lettera a), del regolamento n. 2100/94 si estendessero, indipendentemente dalle condizioni di cui al paragrafo 3 di tale articolo, al materiale del raccolto della varietà protetta che non può essere utilizzato a fini di moltiplicazione.
L’interpretazione secondo la quale la tutela “primaria” ai sensi dell’articolo 13, paragrafo 2, lettera a), di tale regolamento si limita, al di fuori dei casi in cui le condizioni di cui al paragrafo 3 di tale articolo sono soddisfatte per quanto riguarda il materiale del raccolto, ai costituenti varietali in quanto materiale di moltiplicazione, è avvalorata dall’articolo 14, paragrafo 1, lettera a), della Convenzione UPOV, di cui occorre tener conto ai fini dell’interpretazione di detto regolamento, conformemente al considerando 29 di quest’ultimo.
Infatti, in forza dell’articolo 14, paragrafo 1, lettera a), di tale Convenzione, l’autorizzazione del costitutore è richiesta per gli atti di “produzione” o di “riproduzione” compiuti in relazione al “materiale di riproduzione o di moltiplicazione della varietà protetta”.
Inoltre, come rilevato dall’avvocato generale ai paragrafi da 32 a 35 delle sue conclusioni, dai lavori preparatori relativi all’articolo 14, paragrafo 1, lettera a), della Convenzione UPOV risulta che l’utilizzazione del materiale di riproduzione ai fini della produzione di un raccolto è stato espressamente escluso dall’ambito di applicazione di tale disposizione che stabilisce le condizioni di applicazione della tutela primaria, quale corrispondente a quella dell’articolo 13, paragrafo 2, del regolamento n. 2100/94.
Pertanto, in forza dell’articolo 14, paragrafo 1, lettera a), della Convenzione UPOV, il costitutore può vietare non già l’utilizzazione di costituenti varietali ai soli fini di un raccolto agricolo, bensì soltanto determinati atti che danno luogo a riproduzione o moltiplicazione della varietà protetta”.
4.9. Rispondendo, successivamente, alla terza delle questioni pregiudiziali precedentemente riportate nel Par. 4.4.1.4. della presente motivazione, la CGUE ha affermato che “l’articolo 13, paragrafo 3, del regolamento n. 2100/94 deve essere interpretato nel senso che i frutti di una varietà vegetale che non possono essere utilizzati come materiale di moltiplicazione non possono essere considerati come ottenuti mediante una “utilizzazione non autorizzata dei costituenti varietali” di tale varietà vegetale, ai sensi di detta disposizione, qualora i suddetti costituenti varietali siano stati moltiplicati e venduti a un agricoltore da un vivaio durante il periodo compreso tra la pubblicazione della domanda di privativa comunitaria per ritrovati vegetali relativa a detta varietà vegetale e la sua concessione. Qualora, dopo la concessione di tale privativa, detti costituenti varietali siano stati moltiplicati e venduti senza il consenso del titolare della stessa privativa, quest’ultimo può far valere il diritto ad esso conferito dall’articolo 13, paragrafo 2, lettera a), e paragrafo 3, di tale regolamento per quanto riguarda i suddetti frutti, salvo che egli abbia avuto una congrua opportunità di esercitare il suo diritto in relazione ai medesimi costituenti varietali”.
4.9.1. A tale conclusione essa è giunta alla stregua delle seguenti considerazioni: “Con la sua terza questione, il giudice del rinvio chiede, in sostanza, se l’articolo 13, paragrafo 3, del regolamento n. 2100/94 debba essere interpretato nel senso che i frutti di una varietà vegetale che non possono essere utilizzati come materiale di moltiplicazione devono essere considerati come ottenuti mediante una “utilizzazione non autorizzata dei costituenti varietali” di tale varietà vegetale, ai sensi di detta disposizione, qualora i suddetti costituenti varietali siano stati moltiplicati e venduti a un agricoltore da un vivaio durante il periodo compreso tra la pubblicazione della domanda di privativa comunitaria di detta varietà vegetale e la sua concessione.
A tale riguardo, occorre rilevare, da un lato, che, in seguito alla concessione della privativa comunitaria per ritrovati vegetali, il compimento non autorizzato degli atti di cui all’articolo 13, paragrafo 2, del regolamento n. 2100/94 nei confronti della varietà vegetale oggetto di tale privativa costituisce una “utilizzazione non autorizzata”, ai sensi dell’articolo 13, paragrafo 3, del regolamento n. 2100/94. Pertanto, conformemente all’articolo 94, paragrafo 1, lettera a), di detto regolamento, chiunque, in tali circostanze, compia uno di tali atti può essere oggetto di un’azione intentata da tale titolare per far cessare la violazione o per ottenere un’equa compensazione o per entrambe le cose.
Dall’altro lato, per quanto riguarda il periodo precedente alla concessione di tale privativa, detto titolare può esigere, conformemente all’articolo 95 del regolamento n. 2100/94 un indennizzo adeguato da parte di chiunque abbia commesso, nel periodo compreso fra la pubblicazione della domanda di privativa comunitaria per ritrovati vegetali e la concessione della stessa, un atto che sarebbe stato vietato dopo tale periodo, in virtù di una siffatta privativa.
Si deve considerare che, atteso che l’articolo 95 di tale regolamento riguarda unicamente la possibilità per il titolare della privativa comunitaria per ritrovati vegetali di una varietà vegetale di esigere un indennizzo adeguato, esso non gli conferisce altri diritti, quali, in particolare, il diritto di autorizzare o di vietare l’utilizzazione di costituenti varietali di tale varietà vegetale per il periodo di cui a detto articolo 95. Tale regime di tutela si distingue quindi da quello della previa autorizzazione che si impone allorché gli atti di cui all’articolo 13, paragrafo 2, del regolamento n. 2100/94 sono compiuti dopo la concessione della privativa comunitaria.
Ne consegue che, per quanto riguarda il periodo di tutela di cui all’articolo 95 del regolamento n. 2100/94, il titolare della privativa comunitaria per ritrovati vegetali non può vietare il compimento di uno degli atti previsti all’articolo 13, paragrafo 2, di tale regolamento a motivo della mancanza del suo consenso, cosicché il loro compimento non costituisce una utilizzazione non autorizzata” ai sensi dell’articolo 13, paragrafo 3, di detto regolamento.
Nel caso di specie, da quanto precede risulta che, poiché la moltiplicazione e la vendita al sig. (…) dei piantoni della varietà vegetale protetta di cui trattasi nel procedimento principale sono state effettuate durante il periodo di cui all’articolo 95 del regolamento n. 2100/94, tali atti non possono essere considerati come una siffatta utilizzazione non autorizzata.
Pertanto, i frutti ottenuti da tali piantoni non devono essere considerati come ottenuti mediante un’utilizzazione non autorizzata, ai sensi dell’articolo 13, paragrafo 3, di tale regolamento, e ciò anche se sono stati raccolti dopo la concessione della privativa comunitaria per ritrovati vegetali. Infatti, come risulta dalla risposta alla prima e alla seconda questione, la messa a coltura dei costituenti varietali di una varietà vegetale e la raccolta dei frutti della stessa che non possono essere utilizzati come materiale di moltiplicazione non costituisce un atto di produzione o di riproduzione di costituenti varietali, ai sensi dell’articolo 13, paragrafo 2, lettera a), del regolamento n. 2100/94.
Per quanto riguarda i piantoni della varietà vegetale protetta che sono stati moltiplicati e venduti al sig. (…) da un vivaio dopo la concessione della privativa comunitaria per ritrovati vegetali, occorre rilevare che sia la moltiplicazione di tali piantoni sia la loro vendita possono costituire una siffatta utilizzazione non autorizzata, dal momento che, ai sensi dell’articolo 13, paragrafo 2, lettere c) e d), del regolamento n. 2100/94, l’offerta in vendita e la vendita o qualsiasi altra forma di commercializzazione dei frutti di una varietà protetta sono subordinate al previo consenso del titolare della privativa comunitaria per ritrovati vegetali.
In tali circostanze, i frutti dei piantoni della varietà vegetale protetta di cui al punto precedente raccolti dal sig. (…) possono essere considerati come ottenuti mediante un’utilizzazione non autorizzata di costituenti varietali di una varietà protetta, ai sensi dell’articolo 13, paragrafo 3, del regolamento n. 2100/94.
Ciò premesso, ai fini dell’applicazione di quest’ultima disposizione, occorre inoltre che tale titolare non abbia avuto una congrua opportunità di esercitare il suo diritto in relazione alla varietà vegetale di cui trattasi nel procedimento principale presso il vivaio che avrebbe proceduto alla moltiplicazione e alla vendita dei costituenti varietali”.
4.10. In buona sostanza, la CGUE ha dovuto preliminarmente decidere se la messa a dimora delle piante acquistate rientri nell’attività di “produzione o riproduzione” di costituenti varietali o sia connessa alla “raccolta dei frutti”. Mentre nel primo caso l’autorizzazione del breeder è sempre richiesta (tutela primaria), nel secondo ciò sarà possibile solo a condizione che la raccolta riguardi piante “non autorizzate”, o rispetto alle quali il breeder non abbia avuto modo di esercitare i suoi diritti di autorizzazione (tutela secondaria).
4.10.1 In altri termini, la Corte ha spiegato, in linea generale, che, in base al Regolamento 2100/94, vi sono due livelli di protezione, ovvero la protezione primaria, che copre la produzione o la riproduzione dei componenti della varietà (art. 13(2) (a)) e la protezione secondaria, che copre il materiale raccolto.
4.10.2. Ai sensi dell’art. 13(3), la protezione del materiale raccolto è applicabile solo nel rispetto di due condizioni, cioè che a) tale materiale sia stato ottenuto attraverso l’uso non autorizzato di componenti della varietà costituenti della varietà, e b) a meno che il titolare non abbia avuto l’opportunità di esercitare il suo diritto in relazione a quei costituenti della varietà.
4.10.3. La Corte ha precisato che, secondo il Regolamento, i “costituenti della varietà” sono “piante intere o parti di piante, nella misura in cui tali parti siano in grado di produrre piante intere”. Nella fattispecie ivi affrontata, la vicenda riguardava i mandarini Nadorcott, non “in grado di produrre piante intere”, poiché non possono essere utilizzati come materiale di moltiplicazione. È innegabile, tuttavia, che tali assunti della sentenza de qua non possono che riferirsi a tutte quelle varietà vegetali in cui il frutto non può, a sua volta, costituire materiale di moltiplicazione (produzione o riproduzione) della varietà. Quindi anche le viti, non potendo ottenersi dai loro frutti una nuova vite: a maggior ragione, dunque, esse, per quanto di specifico interesse in questa sede, valgono per l’uva rossa da tavola senza semi, commercializzata sotto il marchio registrato “Scarlotta seedless”, costituente il frutto della varietà vegetale “Sugranineteen”, del cui brevetto europeo (CPVR) è titolare la S* W*.
4.10.4. Pertanto, la CGUE ha concluso che, in tali casi, l’autorizzazione del titolare del CPVR non è necessaria, a meno che sussistano entrambe le condizioni di cui all’art. 13(3).
4.10.5. La stessa Corte, poi, passando alla seconda questione, ha puntualizzato che il Regolamento prevede due diversi mezzi di protezione, a seconda dello stato della domanda. Una volta concesso, il CPVR, il titolare può citare in giudizio il trasgressore, ingiungendogli di cessare qualsiasi tipo di atto non autorizzato, e/o di pagare un risarcimento ragionevole e ulteriori danni in caso di atti intenzionali o negligenti (art. 94). Invece, tra la pubblicazione della domanda e la concessione del CPVR, il titolare ha solo diritto a un indennizzo adeguato (art. 95), per qualsiasi atto non autorizzato.
4.10.6. Ciò evidenzia una delle peculiarità dei CPVR i quali, a differenza di altri diritti di privativa industriale come marchi o brevetti – la cui protezione si basa sulla data di deposito della domanda – godono di un diverso livello di protezione a seconda che il titolo risulti concesso al momento degli atti non autorizzati o sia ancora in stato di domanda.
4.11. Tanto premesso, osserva il Collegio che l’interpretazione complessivamente fornita dalla CGUE relativamente all’art. 13 del Regolamento (CE) 2100/94 riveste necessariamente un valore generale, in quanto volta ad individuarne la portata così come avrebbe dovuto essere intesa ed applicata fin dal momento della sua entrata in vigore. In quest’ottica, dunque, la pronuncia in esame assume, in parte qua, un significato suo proprio, non riferibile, cioè, – diversamente da quanto preteso dalla odierna controricorrente – alla sola fattispecie concreta ivi affrontata (come si è detto, differente rispetto a quella oggi all’attenzione del Collegio, se non altro perché, in quest’ultima, il Contratto Principale tra la M* A* e la multinazionale S* W* è stato stipulato in una data cronologicamente successiva al riconoscimento, in favore di detta multinazionale, del brevetto europeo sulla varietà vegetale “Sugranineteen”), ma valevole in tutte le fattispecie (come, appunto, anche quella in esame) in cui venga in rilievo la interpretazione della suddetta norma regolamentare. Si è già detto, infatti, che alle decisioni pregiudiziali interpretative della CGUE è riconosciuta una capacità estensiva nei confronti di altri procedimenti, in forza di una loro dichiarata efficacia erga omnes o almeno de facto ultra partes, per la necessaria garanzia della uniforme applicazione dell’interpretazione del diritto euro-unitario, assistita dall’obbligo degli Stati membri di adottare ogni misura “atta ad assicurare l’esecuzione degli obblighi derivanti dai trattati o conseguenti agli atti delle istituzioni dell’Unione” (art. 4, TUE).
4.12. Muovendo da questa conclusione, allora, occorre chiedersi se una pattuizione quale quella complessivamente derivante dalle clausole contrattuali rinvenibili, rispettivamente, al punto 3.4 (“Le Parti riconoscono e accettano espressamente quanto segue: (a) S* W* è proprietaria di ogni singola Pianta in Affitto e/o Cultivar di S* W* oggetto del presente Accordo, eccettuati i frutti prodotti dalle Piante in Affitto, che ai sensi dell’art. 1615 c.c., spettano al Produttore, il quale, tuttavia, ne può disporre entro i limiti ed alle condizioni previste nel presente Accordo”) ed al punto 4.2. (“Le Parti stabiliscono che la Frutta di proprietà riservata (intendendosi per tale, giusta quanto sancito nel paragrafo contrattuale recante le “Definizioni”, “i frutti prodotti da qualsiasi Cultivar di S* W* e /o Pianta in affitto coltivata all’interno dell’Unione Europea”. Ndr) prodotta dalle Piante in Affitto venga distribuita attraverso un Distributore Autorizzato, condizione essenziale per l’efficacia del presente Accordo. L’eventuale commercializzazione, distribuzione ed esportazione della Frutta di Proprietà riservata coltivata dal Produttore Autorizzato (nella specie, la M* A* Ndr) e non eseguita dal Distributore Autorizzato porterà all’immediata risoluzione del presente contratto nonché al ritiro di ogni autorizzazione e concessione data da S* W* di cui all’art. 1. L’elenco “C” (come di volta in volta modificato da S* W*) contiene un elenco dei Distributori Autorizzati in Italia”) del Contratto Principale intercorso tra le odierne parti in causa sia compatibile, o non, con i principi generali suddetti di cui alla sentenza della CGUE 19 dicembre 2019-causa C.176/18.
4.12.1. A tale interrogativo il Collegio ritiene di dover rispondere negativamente.
4.12.2. Invero, nel ricostruire il perimetro dei diritti esclusivi di cui gode il titolare di una privativa vegetale giusta l’art. 13 del Regolamento (CE) 2100/94, occorre prendere in considerazione non soltanto le disposizioni di cui all’art. 13.1 e 13.2 del Regolamento medesimo, ma anche quanto previsto dal successivo suo art. 13.3, ai sensi del quale, – come chiaramente si desume dalla interpretazione fornitane dalla menzionata sentenza CGUE – una volta autorizzato l’uso dei costituenti varietali, il titolare del brevetto perde ogni potere dispositivo sul cd. “materiale del raccolto” nella misura in cui questo consista in frutti che non possono, a loro volta, costituire materiale di moltiplicazione (produzione o riproduzione) della varietà.
4.12.3. Alteris verbis, ai sensi dell’appena citato art. 13.3, la protezione del materiale raccolto consistente nei frutti così caratterizzati è invocabile solo nel rispetto di due condizioni, cioè che: a) tale materiale sia stato ottenuto attraverso l’uso non autorizzato di componenti della varietà costituenti della varietà; b) il titolare non abbia avuto l’opportunità di esercitare il suo diritto in relazione a quei costituenti della varietà.
4.13. La descritta pattuizione complessivamente derivante dalle già riportate clausole contrattuali rinvenibili, rispettivamente, al punto 3.4 ed al punto 4.2. del Contratto Principale intercorso tra le odierne parti in causa si rivela, allora, chiaramente non in linea con quanto si è testé precisato, nella misura in cui, sostanzialmente, attribuisce al titolare del brevetto de quo anche il diritto di individuare i soggetti cui soltanto potranno essere ceduti i frutti in questione per la loro successiva commercializzazione, – addirittura configurando quale causa di immediata risoluzione contrattuale l’inadempimento del produttore (nella specie la M* A*) ad una tale pattuizione – malgrado l’uso certamente autorizzato (circostanza, questa, assolutamente incontroversa, perché sancita contrattualmente), da parte della M*A*, che ne aveva anche pagato il corrispettivo, delle componenti della varietà vegetali da cui quei frutti erano stati prodotti.
4.13.1. Ne consegue, dunque, che, laddove il Contratto Principale intercorso tra le odierne parti in causa è stato dichiarato risolto, dagli arbitri, in ragione dell’inadempimento della M* A*, ricondotto dai primi, come è utile ricordare, proprio (e soltanto) all’avere ella venduto “l’uva Scarlotta Seedless a distributori non autorizzati”, si è al cospetto di una pronuncia in contrasto con l’appena riportata conclusione.
4.14. Resta da stabilire, a questo punto, se l’appena descritto errore di diritto che inficia il lodo definitivo oggi impugnato dalla M* A*, renda quest’ultimo contrario a principi di ordine pubblico.
4.14.1. É noto, infatti, che il disposto del novellato art. 829, comma 3, cod. proc. civ. ha escluso, in via generale, la possibilità di impugnare il lodo per violazione di norme di diritto relative al merito della controversia, se tale possibilità non è espressamente prevista dalle parti o dalla legge, consentendola, in via eccezionale, solo nel caso in cui la decisione sia contraria a principi di ordine pubblico.
4.14.2. Sebbene, dunque, l’arbitro rituale debba giudicare secondo diritto, dando applicazione al principio iura novit curia, non tutti gli errori di giudizio nell’applicazione o nell’interpretazione del diritto sono sindacabili. Solo se l’error iuris in iudicando comporta la violazione di un principio che è espressione di un valore essenziale dell’ordinamento (cioè di ordine pubblico), il lodo stesso frustra tale valore e diviene intollerabile, al punto da giustificarne la rimozione degli effetti (fase rescindente) e la riforma della decisione (fase rescissoria).
4.14.3. Come già più volte affermato da questa Corte, il richiamo alla clausola dell’ordine pubblico, operato dall’art. 829, comma 3, cod. proc. civ., deve essere interpretato come rinvio alle norme fondamentali e cogenti dell’ordinamento e non sottende una nozione “attenuata” di ordine pubblico, che comprende tutte le norme imperative esistenti (cfr. Cass. n. 21850 del 2020 e Cass. n. 25187 del 2021, entrambe richiamate, in motivazione, dalla più recente Cass. n. 27615 del 2022).
4.14.4. Tale soluzione si pone in piena coerenza con il dettato codicistico, che distingue tra contrarietà a norme imperative e contrarietà all’ordine pubblico (art. 1343 cod. civ.).
4.14.5. In particolare, la nozione di ordine pubblico esprime quei principi etici, economici, politici e sociali che, in un determinato momento storico, caratterizzano il nostro ordinamento nei vari campi della convivenza sociale, i “valori dì fondo” del sistema giuridico italiano, che trovano in larga parte espressione nella Carta costituzionale. Si tratta, in sintesi, di un complesso di norme e principi che esprimono interessi e valori generalizzati dell’intera collettività, dettati a tutela di interessi generali, per questo non derogabili dalla volontà delle parti, né suscettibili di compromesso (cfr., con riferimento all’impugnazione del lodo pronunciato secondo equità, Cass n. 16755 del 2013 e Cass. n. 4228 del 1999, anch’esse entrambe ribadite, in motivazione, dalla già citata, più recente, Cass. n. 27615 del 2022).
4.15. Fermo quanto precede, ritiene il Collegio che, al fine di configurare la nullità per contrarietà all’ordine pubblico (per violazione di norme imperative sancite dall’art. 13 del Regolamento (CE) 2100/94, posto che il giudice, nel ricercare i principi fondamentali dell’ordinamento italiano, deve tener conto anche delle regole e dei principi entrati a far parte del nostro sistema giuridico in virtù del suo conformarsi ai precetti del diritto internazionale, sia generale che pattizio, e del diritto dell’Unione europea) di una pattuizione come quella complessivamente derivante dalle già riportate clausole contrattuali nn. 3.4 e 4.2. del Contratto Principale suddetto, così da considerare la descritta statuizione del lodo definitivo, a sua volta, contraria all’ordine pubblico, rendendone ammissibile, pertanto, l’impugnazione della stessa avanti alla corte d’appello, secondo quanto previsto dal vigente art. 829, comma 3, cod. proc. civ., è sufficiente, da un lato, osservare, condividendosi quanto si legge nella requisitoria scritta del sostituto procuratore generale, che “richiamata la costruzione concettuale dell’ordine pubblico come l’insieme delle norme fondamentali e cogenti dell’ordinamento dettate a tutela di interessi generali, comprese quelle costituzionali e quelle che caratterizzano la struttura etico-sociale della comunità internazionale in un determinato momento storico, è decisivo considerare che il riconoscimento in favore del titolare della varietà vegetale di un diritto di proprietà su piante e frutti realizzati dalla controparte in conseguenza dell’utilizzo autorizzato dei costituenti varietali integri una lesione dei principi attinenti allo sviluppo dell’attività agricola ed alla libera concorrenza”. Dall’altro, e soprattutto, ribadire le chiare argomentazioni della sentenza CGUE ampiamente illustrata in precedenza laddove ha affermato che dal quinto, dal quattordicesimo e dal ventesimo considerando del Regolamento (CE) 2100/94 “risulta che, sebbene il regime istituito dall’Unione sia inteso a concedere una tutela ai costitutori che sviluppano nuove varietà al fine di incentivare, nell’interesse pubblico, la selezione e lo sviluppo di nuove varietà, tale tutela non deve andare oltre quanto è indispensabile per incentivare detta attività, a pena di compromettere la tutela degli interessi pubblici costituiti dalla salvaguardia della produzione agricola, l’approvvigionamento del mercato di materiale che presenti determinate caratteristiche o di compromettere l’obiettivo stesso di continuare ad incoraggiare la selezione costante di varietà migliorate. In particolare, secondo il combinato disposto del diciassettesimo e del diciottesimo considerando di detto regolamento, la produzione agricola costituisce un interesse pubblico che giustifica l’assoggettamento a restrizioni dell’esercizio dei diritti conferiti dalla privativa comunitaria per ritrovati vegetali. Al fine di rispondere a tale obiettivo, l’articolo 13, paragrafo 3, del regolamento n. 2100/94 dispone che la tutela conferita dal paragrafo 2 di tale articolo al titolare di una privativa comunitaria per ritrovati vegetali si applica soltanto a determinate condizioni ai “prodotti del raccolto”. (…). Inoltre, l’interesse pubblico connesso alla salvaguardia della produzione agricola, di cui al diciassettesimo e al diciottesimo considerando del regolamento n. 2100/94, sarebbe potenzialmente rimesso in discussione se i diritti conferiti al titolare di una privativa comunitaria per ritrovati vegetali dall’articolo 13, paragrafo 2, lettera a), del regolamento n. 2100/94 si estendessero, indipendentemente dalle condizioni di cui al paragrafo 3 di tale articolo, al materiale del raccolto della varietà protetta che non può essere utilizzato a fini di moltiplicazione”.
4.16. Né, in contrario, possono assumere significativo valore le due decisioni, la prima interlocutoria e la seconda definitiva, depositate dalla controricorrente unitamente alla sua memoria ex art. 378 cod. proc. civ. datata 8 marzo 2024 dell’AGCM, atteso – pure a volersi prescindere da qualsivoglia ulteriore approfondimento circa la completa, o almeno parziale, corrispondenza tra le vicende ivi esaminate e quella di cui oggi si discute – quanto si è già detto (cfr., amplius, i Par. da 4.3.2. a 4.3.4. di questa motivazione, da intendersi qui riprodotti per evidenti ragioni di sintesi) relativamente alla vincolatività delle pronunce rese in ambito di procedimento pregiudiziale cd. interpretativo dalla Corte di Giustizia, ed alla conclusione ivi accolta secondo cui la “decisione resa in sede di rinvio pregiudiziale non solo è vincolante per il giudice che ha sollevato la questione, ma spiega i propri effetti anche rispetto a qualsiasi altro caso che debba essere deciso in applicazione della medesima disposizione di diritto dell’Unione interpretata dalla Corte”.

5. In conclusione, dunque, l’odierno ricorso di M* A*, titolare dell’omonima ditta individuale, deve essere accolto limitatamente al suo secondo motivo, dichiarandosene inammissibile il primo. La sentenza impugnata, pertanto, deve essere cassata in relazione al motivo accolto e la causa va rinviata alla Corte di appello di Milano, in diversa composizione, per il corrispondente nuovo esame da effettuarsi alla stregua del seguente principio di diritto:
“In tema di privativa comunitaria per ritrovati vegetali, è nulla, per contrarietà all’ordine pubblico, stante la violazione dell’art. 13, punti 2 e 3, del Regolamento (CE) del Consiglio n. 2100/94, nell’interpretazione fornitane dalla Corte di Giustizia, la clausola contrattuale che attribuisca al titolare dei diritti di proprietà intellettuale sui cultivar brevettati anche il potere di individuare i soggetti ai quali soltanto spetterà la distribuzione dei frutti ottenuti dal produttore precedentemente autorizzato all’utilizzo dei costituenti varietali della varietà protetta da cui quei frutti siano stati prodotti, ove questi ultimi siano inutilizzabili come materiale di moltiplicazione”.
5.1. Al suddetto giudice di rinvio va rimessa pur la regolamentazione delle spese di questo giudizio di legittimità.

P.Q.M.

La Corte accoglie il ricorso di M* A*, titolare dell’omonima ditta individuale, limitatamente al suo secondo motivo, dichiarandone inammissibile il primo.
Cassa la sentenza impugnata in relazione al motivo accolto e rinvia la causa alla Corte di appello di Milano, in diversa composizione, per il corrispondente nuovo esame e per la regolamentazione delle spese di questo giudizio di legittimità.

Così deciso in Roma il 21 marzo 2024.

Depositata in Cancelleria il 9 aprile 2024.

* * *

  1. comunemente, da Treccani: 1. Tracce, impronte, ciò che richiama alla mente un passato ormai perduto: le vestigia di un’antica cultura; Di vaga fera le vestigia sparse Cercai per poggi solitarii et ermi (F. Petrarca). 2. Resti di monumenti antichi, rovine monumentali: le vestigia dei fori.
    in biologia, da Wikipedia: Sono considerate vestigia (dal latino vestigium, impronta, orma) quegli elementi di un organismo (per esempio l’Uomo) che in esso persistono, ma che hanno perso del tutto la funzionalità che invece avevano in un antenato o nell’embrione. Si possono individuare due tipi di vestigia: filogenetico e ontogenetico. Nel primo caso un esempio classico è l’appendice vermiforme, residuo intestinale erbivoro, nel secondo l’ombelico. Un elemento vestigiale può non aver alcun ruolo nell’organismo, come l’epooforon nella donna, oppure può avere ancora qualche funzione, come i denti del giudizio[1], o ancora aver cambiato funzione, come il sacco vitellino nell’embrione umano.
    ↩︎
  2. dalla motivazione della sentenza Van Gend en Loos v Nederlandse Administratie der Belastingen: Dall’analisi della struttura giuridica del Trattato e dell’ordinamento giuridico che esso ha instaurato emerge, secondo la Commissione, anzitutto che gli Stati membri non hanno inteso soltanto assumere impegni reciproci, ma anche istituire un diritto comunitario e, in secondo luogo, che essi non hanno voluto sottrarre ai giudici nazionali il controllo sull’applicazione di tale diritto. Ora, il diritto comunitario dovrebbe essere applicato in modo effettivo ed uniforme nell’intera Comunità. Ciò implicherebbe in primo luogo che l’efficacia del diritto comunitario nell’ordinamento interno di ciascuno Stato membro non può essere determinata dall’ordinamento stesso, bensì unicamente dal diritto comunitario; in secondo luogo che i giudici nazionali sono tenuti ad applicare direttamente le norme di tale diritto e, infine, che in caso di contrasto, il giudice nazionale è tenuto ad applicare il diritto comunitario a preferenza delle leggi nazionali, anche di emanazione posteriore. La Commissione osserva a questo proposito che la circostanza che una norma comunitaria sia, formalmente, diretta agli Stati non costituisce motivo sufficiente per negare ai singoli che vi abbiano interesse, la facoltà di chiedere l’intervento del giudice nazionale onde ottenerne l’osservanza. ↩︎
  3. dalla motivazione delle sentenza Flaminio Costa c. ENEL : La Corte rileva che, a differenza dei comuni trattati internazionali, il Trattato C.E.E. ha istituito un proprio ordinamento giuridico, integrato nell’ordinamento giuridico degli Stati membri all’atto dell’entrata in vigore del Trattato e che i giudici nazionali sono tenuti ad osservare. Infatti, istituendo una Comunità senza limiti di durata, dotata di propri organi, di personalità, di capacità giuridica, di capacità di rappresentanza sul piano internazionale, ed in ispecie di poteri effettivi provenienti da una limitazione di
    competenza o da un trasferimento di attribuzioni degli Stati alla Comunità, questi hanno limitato, sia pure in campi circoscritti, i loro poteri sovrani e creato quindi un complesso di diritto vincolante per i loro cittadini e per loro stessi. Tale integrazione nel diritto di ciascuno Stato membro di norme che promanano da fonti comunitarie, e più in generale, lo spirito e i termini del Trattato, hanno per corollario l’impossibilità per gli Stati di far prevalere, contro un ordinamento giuridico da essi accettato a condizione di reciprocità, un provvedimento unilaterale ulteriore, il quale pertanto non potrà essere opponibile all’ordine comune. Se l’efficacia del diritto comunitario variasse da uno stato all’altro in funzione delle leggi interne posteriori, ciò metterebbe in pericolo l’attuazione degli scopi del Trattato contemplata nell’art. 5, secondo comma, e causerebbe una discriminazione vietata dall’art. 7. Gli obblighi assunti col Trattato istitutivo della Comunità non sarebbero assoluti, ma soltanto condizionati, qualora le Parti contraenti potessero sottrarsi alla loro osservanza mediante ulteriori provvedimenti legislativi. I casi in cui gli Stati hanno diritto di agire unilateralmente sono espressamente indicati (v. ad es. gli articolo 15, 93 n. 3, 223/225) e d’altronde le domande di deroga degli Stati sono soggette a procedure d’autorizzazione (v. ad es. gli articoli 8 n. 4, 17 n. 4, 25, 26, 73, 93 n. 2, terzo comma, e 226) che sarebbero prive di significato qualora essi potessero sottrarsi ai loro obblighi mediante una semplice legge interna
    . ↩︎
  4. dalla motivazione della sentenza Corte Costituzionale n. 183 del 1973: Esigenze fondamentali di eguaglianza e di certezza giuridica postulano che le norme comunitarie, – non qualificabili come fonte di diritto internazionale, né di diritto straniero, né di diritto interno dei singoli Stati -, debbano avere piena efficacia obbligatoria e diretta applicazione in tutti gli Stati membri, senza la necessità di leggi di recezione e adattamento, come atti aventi forza e valore di legge in ogni Paese della Comunità, sì da entrare ovunque contemporaneamente in vigore e conseguire applicazione uguale ed uniforme nei confronti di tutti i destinatari. Risponde altresì alla logica del sistema comunitario che i regolamenti della C.E.E., – semprechè abbiano completezza di contenuto dispositivo, quale caratterizza di regola le norme intersoggettive -, come fonte immediata di diritti ed obblighi sia per gli Stati sia per i loro cittadini in quanto soggetti della Comunità, non debbano essere oggetto di provvedimenti statali a carattere riproduttivo, integrativo o esecutivo, che possano comunque differirne o condizionarne l’entrata in vigore, e tanto meno sostituirsi ad essi, derogarvi o abrogarli, anche parzialmente. E qualora uno di questi regolamenti comportasse per lo Stato la necessità di emanare norme esecutive di organizzazione dirette alla ristrutturazione o nuova Costituzione di uffici o servizi amministrativi, ovvero di provvedere a nuove o maggiori spese, prive della copertura finanziaria richiesta dall’art. 81 della Costituzione, mediante le opportune variazioni di bilancio, é ovvio che l’adempimento di questi obblighi da parte dello Stato non potrebbe costituire condizione o motivo di sospensione dell’applicabilità della normativa comunitaria, la quale, quanto meno nel suo contenuto intersoggettivo, entra immediatamente in vigore. ↩︎

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